Regia di Joe Johnston vedi scheda film
Ebbene, oggi recensiamo uno dei film più sottovalutati degli ultimi dieci anni, ovvero Wolfman (The Wolfman) di Joe Johnston, regista forse erroneamente considerato, come si suol dire in gergo, un buon mestierante e nulla di più.
Spesso si abusa di questi appellativi affibbiati un po’ a casaccio, appioppati a cineasti che, invero, meriterebbero una più ampia rivalutazione piuttosto che essere relegati, in modo superficialmente snobistico, in limitanti patenti.
Joe Johnston, certamente, non ha mai diretto cosiddetti capolavori e la sua filmografia registica non consta di titoli probabilmente così indimenticabili da strapparsi i capelli. Ma, nel suo carnet di film da lui realizzati, può vantare un imprescindibile cult movie dell’infanzia di noi tutti, vale a dire Tesoro, mi si sono ristretti i ragazzi, il mirabolante Le avventure di Rocketeer, il divertente e, a suo modo, “seminale” Jumanji, il discreto Jurassic Park III, l’avventuroso e movimentato Oceano di fuoco - Hidalgo e Captain America - Il primo Vendicatore.
Anche se unanimemente il suo film migliore rimane l’intimistico e commovente Cielo d’ottobre.
Dopo il forfait di Mark Romanek (One Hour Photo), inizialmente designato alla regia di Wolfman, la Universal Pictures si affidò, per l’appunto, a Johnston. Il quale subentrò in extremis, cioè soltanto a pochi giorni dall’inizio delle riprese, rimpiazzando Romanek che ebbe violenti scontri col cast e con la produzione ancora prima di poter scattare i primi ciak.
Un paio di settimane fa, Romanek, a distanza di circa dieci anni dall’uscita nelle sale di Wolfman, rilasciò alcune dichiarazioni in merito a quella che fu la sua inevitabile dipartita.
Asserendo che fu inevitabile la sua decisione di abbandonare il set per colpa d’irrisolvibili conflitti ideativi fra lui e le persone coinvolte nel progetto. A partire innanzitutto dal suo protagonista, Benicio Del Toro. Il quale, essendo della pellicola anche uno dei principali producer oltre che uno dei massimi fautori, avendone bramato il sogno d’incarnare l’uomo lupo per tantissimi anni, stando alle parole di Romanek, malgrado gli accordi antecedentemente presi fra loro due, impose a Romanek delle inderogabili scelte radicali di visione che poco aggradarono e risultarono congeniali, per l’appunto, allo stesso Romanek che, a sua volta, profondamente indispettito dall’essere comandato a bacchetta da Del Toro, non accettò le sue imperiose imposizioni e le sue dittatoriali direttive. Dunque, giocoforza, fu costretto, in linea con la sua inappuntabile personalità incedibile ai compromessi, a salutare tutti, tornando speditamente a casa. Cioè, a essere sinceri, fu da Del Toro e dalla Universal licenziato per direttissima.
Detto ciò, non possiamo né potremo mai vedere la versione di Wolfman diretta da Romanek, in quanto ovviamente inesistente. Semplicemente, ci atterremo a ciò che vedemmo del film in questione firmato da Johnston.
Che, pur dirigendo su commissione, senz’ombra di dubbio possiamo dichiarare che abbia svolto un lavoro egregio, nient’affatto disprezzabile così come, sopra accennato, sbrigativamente la Critica, un po’ troppo irriguardosa nei suoi confronti, sacramentò con esagerata repentinità del tutto sbagliata.
Sì, Wolfman è un gran bel film. Chi scrive questo pezzo, peraltro, annette perfino sé stesso fra i prematuri detrattori di questa pellicola. In quanto, la vide in sala quando uscì e ne rimase davvero poco entusiasta.
Wolfman, chiariamolo subito, va rivisto con più oculatezza nella sua versione estesa di 16 minuti inediti apparsa nella sua ultima edizione in Blu-ray.
Poiché le scene aggiunte, permetteteci il gioco di parole quanto mai pertinente, decisamente aggiungono notevoli suggestioni e più sofisticata atmosfera a Wolfman. Definendolo più dettagliatamente e maggiormente.
Copia-incolliamo qui la trama del film tratta dal Dizionario dei film Morandini:
remake di L’uomo lupo (1941) qui liberamente sceneggiato da Andrew Kevin Walker e David Self. Noto attore scespiriano, Lawrence Talbot (Del Toro) ritorna nel castello dei suoi antenati dove suo fratello è stato ucciso, orrendamente straziato da una misteriosa creatura selvaggia. Il vecchio Talbot, suo padre (Anthony Hopkins), per lui ormai un estraneo, è rattrappito in un terribile segreto, mentre Gwen (Emily Blunt), la fragile cognata, cerca di proteggerlo da un destino maledetto.
A complicare la vita all’incolpevole Talbot, vi pensa il detective di Scotland Yard, il temibile Abberline (un grande Hugo Weaving). Talbot, precedentemente agli eventi narrati, fu ingiustamente rinchiuso in manicomio poiché scelleratamente accusato di disturbi psichici dei quali mai fu affetto. Inoltre, a metà film, dopo una sua violentissima, atroce scorribanda a piede libero durante una notte in cui, al plenilunio, sofferente soltanto d’incontenibile licantropia, si trasformò nella “bestia”, ne viene nuovamente, arbitrariamente internato.
Cammeo di Geraldine Chaplin nei panni della fattucchiera di nome Maleva.
Sì, all’epoca le critiche piovute addosso, in maniera troppo precipitosa e impietosa, a Wolfman, furono decisamente irrispettose. Poiché questo film, rivisto con più calma, a dieci anni di distanza dalla sua release nelle sale, forse non sarà un capolavoro e, negli ultimi tre quarti d’ora, abbonda di scene un po’ pasticciate e volgarmente truculente ma emana un fascino naïf e ammirabilmente démodé di alta scuola raffinata.
Affidandosi a un istrionico e magistrale Del Toro, a un Hopkins particolarmente ispirato e a un’Emily Blunt, come sempre, bellissima e incantevole. Coadiuvandosi di una splendida fotografia e di una superba scenografia gotica di forte impatto.
Forse, l’unico vero difetto che possiamo imputare a Wolfman è quello di non essere, paradossalmente, un horror nel puro senso della parola. Poiché non fa paura. Per questo fu un colossale flop. Infatti, Wolfman non è un film per teenager in cerca solamente di scene splatter e di colpi di scena a buon mercato.
Wolfman è un film d’autore rimaneggiato, a scopo commerciale, per indirizzarlo a un target molto vasto. Ma, adulterato in alcune scene di natura troppo palesemente mainstream, non raccolse, paradossalmente e per l’appunto, i favori dei più giovani. I quali si trovarono dinanzi a un film disomogeneo e spiazzante.
Wolfman è un film estremamente maturo, pieno di sotto-testi psicanalitici profondi e arcani. Ed emana una straniante sensazione di antica bellezza suadente difficilmente riscontrabile in molte pellicole moderne, spesso dozzinali e poco curate nei particolari.
Un film ipnoticamente ammaliante, proveniente dall’era dei mostri della Universal, rinverdito nei fasti di una messa in scena elegantissima e classica, soprattutto nei primi trenta minuti, davvero notevoli per le raffinatissime inquadrature assai seducenti. Levigate, fotograficamente, in immagini rarefatte di pregiato stile né antiquato né artefatto. Un uomo lupo, memore della sua leggenda, cinematografica e non, ammodernato con sobrio ammiccamento al suo capostipite. Un film, dunque, che attinge dalle perdute, nostalgiche atmosfere del grande Cinema di una volta per rivivificarsi nel nuovo millennio con inventività e brio.
Premio Oscar per il Miglior Trucco a “Mr. Un Lupo mannaro americano a Londra”, il leggendario Rick Baker.
di Stefano Falotico
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta