Regia di Zhang Yimou vedi scheda film
Cause di forze maggiori catapultano un’agiata giovane (viziata dal progresso e dal benessere… che fu) dai banchi universitari al regresso di una tradizione atavica e inflessibile, il cui rigido sistema di regole, convenzioni e ferrei riti cerimoniosi (LAMPUR) - a volte incomprensibili, altre volte, semplicemente, crudeli - esige un rispetto semi-incondizionato.
La si può accettare supinamente, anche facendo buon viso a cattivo gioco (se ben si sa recitare). O si può tentare di eluderne l’applicazione. Ma l’inosservanza è un rischio che (sembra volerci insegnare il film) non vale la pena (nonostante tutto) di correre.
Chi non sa (o non vuole) recitare la parte che gli/le è stata assegnata, rinuncia (è vero) ad ingannare gli altri, ma non sé stesso/a. In ambo i casi, emette la sua inappellabile condanna. L’annichilimento fisico (ove non vada a buon fine l’inganno del prossimo). L’annichilimento mentale (ove non vada a buon fine l’inganno di sé stessi).
Raise the Red Lantern è un film sull’impatto dirompente della stasi, della paralisi di un tempo ancestrale (che si rinnova implacabilmente) e dell’immobilismo sociale; è un film sulla condizione della donna (straccio, ornamento od occasionale veicolo di piacere) e sulla violenza di un ordine sociale oppressivo (steno79), basato sulle gerarchie e la prevaricazione; è la rappresentazione del dramma di chi o si rassegna o perisce dinnanzi al rigore draconiano della tradizione.
Un film davvero drammatico (in senso lato e figurato), ma anche affascinante, forte di una confezione estetica elegante (benché la parsimonia da “metronomo arrugginito” - LAMPUR - con cui ne vengono scanditi i tempi abbia almeno un non indifferente effetto collaterale), prona allo spettacolo delle scenografie e delle abili invenzioni cromatiche cui si presta la causa del regista-fotografo.
Il rosso delle lanterne, infatti, cattura egoisticamente tutto. Depaupera di luce e vita gli altri colori e trattiene e propaga la forza della tradizione entro un perimetro che asseconda i capricci del signore di turno. Si circonda di (e si accompagna a) riti e privilegi astrattamente futili e puerili (il massaggio ai piedi) che però, in quell’isola dimora degli avi e del fatalismo, assumono un’importanza soddisfattiva.
Cattura e imprigiona il senso di un’esistenza (di ogni esistenza), fino a soffocarne il respiro. Fino alla fine.
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