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Che. L'Argentino

Regia di Steven Soderbergh vedi scheda film

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La recensione su Che. L'Argentino

di FilmTv Rivista
8 stelle

Ciò che rimane del Che dopo la prima parte della biografia di Steven Soderbergh (abbondantemente oltre le quattro ore), è una manciata frugale e sdrucita di oggetti. Come i resti di qualcuno in una valigia conservata per anni. Il sigaro, gli anfibi, il contatto ossessivo con le armi, la giungla cubana. Se Spielberg o David Lean avessero dovuto dedicare un grande affresco epico all’immagine più popolare della contemporaneità (la mancanza di copyright e il mito alimentato dalla fine tragica - raccontata nella seconda parte, nelle sale italiane dal 1° maggio - ne hanno fatto l’icona più diffusa sul pianeta), forse non avrebbero scelto lo stress dell’agguato e l’assillo della disciplina come passo portante dell’opera. Non c’è ricerca della luce di sbieco, chiaroscuro inedito, scorci di vita destinati a capovolgere il mito. La conquista di Cuba al servizio di Fidel è documentata con una cronaca precisa e dura eppure tutto inizia e finisce con una cena che dà al progetto rivoluzionario la casualità e la grazia del sogno e se il bianco e nero del discorso alle Nazioni Unite sa di maniera, come il ripudio dei media e della mondanità, questo Che Guevara che impone ai contadini l’istruzione e ai soldati la disponibilità incondizionata di una vita, ha l’aria di essere più vicino alla realtà storica di qualsiasi commemorazione. Il merito sta anche nel modo in cui Soderbergh, che aveva in mano un copione in cui gli andirivieni appaiono studiati come una manovra militare, lascia le sfumature a Del Toro: il suo mutismo in cui si avverte il battito del timore o del sospetto, la fermezza del comando che non ne nasconde l’ebbrezza, l’intuizione che arriva nel fuoco della battaglia come un dono. Del Toro non è innamorato del suo personaggio, come qualsiasi altro attore avrebbe rischiato di diventare, ma sembra esplorarlo e scoprirlo insieme a noi, nella radura di fronte a un drappello di contadini incerti e rabbiosi, dentro la solitudine di un hotel di Manhattan, sotto il fuoco di un cecchino che fa strage dei suoi uomini. Spielberg e Lean e Stone avrebbero fatto tutt’altro film, ma difficilmente se ne può immaginare un altro senza di lui, dopo averlo visto.

 

Recensione pubblicata su FilmTV numero 14 del 2009

Autore: Mario Sesti

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