Regia di Steven Soderbergh vedi scheda film
Le immagini in bianco e nero mostrano il discorso del Che all’ONU nel dicembre del 1964. Si ricollegano alla Storia filmata e alla possibile rielaborazione di documenti audiovisivi in chiave cinematografica. Le immagini a colori sono invece quelle della guerriglia a Cuba, delle strategie militari nella Sierra Maestra, del rapporto con Fidel, delle azioni che portarono alla conquista di Santa Clara. Immagini che partono da testimonianze scritte (i diari del Che) per trasformarsi in possibili esempi di Storia filmata, però senza modelli originali da rielaborare, in una riscrittura filmica di eventi storici che Soderbergh compie in completa autonomia, quasi sperimentando nuove forme di racconto. Il regista americano abbandona il Mito (di cui Che Guevara, purtroppo, è uno dei massimi esponenti del secolo passato) per seguire la Storia, rinunciando alla glorificazione dell’eroe rivoluzionario per riportarlo nella quotidianità della vita militante, fatta di un insieme di pensieri, azioni, discorsi, costruita sul rapporto con l’altro, sul rispetto reciproco, sulla ferma convinzione che sia possibile liberare le popolazioni oppresse dai loro oppressori.
E così Guevara rivela le sue molteplici facce. Il dottore, il guerrigliero, il rivoluzionario, l’uomo politico, l’insegnante, il comandante, l’amico. Tutti aspetti del suo carattere che tendono a testimoniare sullo schermo la sua poliedricità, grazie anche ad una struttura narrativa che ce lo mostra sia mentre combatte (con le parole) all’ONU, sia mente combatte (con le armi) nella giungla. Sempre con la stessa identica divisa. In lui non c’è distinzione tra pensiero ed azione. Guevara è l’intellettuale che non ha paura di sporcarsi le mani. La sua figura (una delle icone più importanti del ‘900) è così sempre inserita nella storia (diegetica quanto reale), subito riconoscibile (il sigaro, il basco, la barba, la divisa), ne fa parte, ne è protagonista e allo stesso tempo comparsa, Guevara non è mai da un'altra parte, a teorizzare o perdersi in sterili riflessioni, è all’interno dell’azione, dell’inquadratura e quindi della vita. Il ritratto che Soderbergh fa del Che (grazie anche alla straordinaria interpretazione di Benicio del Toro) rinuncia a qualsiasi spettacolarizzazione per diventare una ricerca personale su una delle figure più carismatiche del secolo scorso, quasi uno studio su come sia possibile raccontare le azioni di un personaggio storico senza cadere nelle trappole che il cinema hollywoodiano ha creato per operazioni di questo genere. Il regista trova quindi un perfetto equilibrio tra le esigenze ritmiche della narrazione e il rispetto della figura di Guevara e non azzarda riflessioni esterne alla diegesi, non correndo così il rischio di far diventare la giungla un luogo metafisico in cui elaborare teorie filosofiche sull’Uomo e la Natura (come accade, per esempio, nel cinema di Malick, che aveva a lungo accarezzato l’idea di realizzare un film sul Che). L’intrico di alberi e arbusti, la terra rossa, la pioggia e il caldo sono invece il posto in cui si impara a combattere e a conoscersi, in cui si forgia, in situazioni di vita molto precarie, lo spirito rivoluzionario. E Soderbergh riesce a farci entrare in questa realtà, trasformando il suo cinema in una finestra aperta sulla Storia e gli uomini che l’hanno fatta. Ricordandoci che le rivoluzioni non si fanno a tavolino, ma nello spazio che esiste fra le cose, tra le persone, in una giungla come in una città.
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