Onnipotenza tecnica del grande Kim Jee-woon, 139 minuti di puro delirio virtuosistico dove ogni sparatoria rappresenta una sorta di mini film da analizzare fotogramma per fotogramma. Ovviamente l'omaggio sentitissimo dell'autore coreano al nostro Sergio Leone è lampante fin dal titolo, seguito poi da tanti archetipi proposti nel corso dell'opera (dai personaggi spinti solo dal denaro a paesaggi e villaggi polverosi e dimenticati da Dio), ma Kim Jee-woon non si accontenta di un semplice omaggio ed ecco che mescola il tutto con una regia che a sua volta richiama i più disparati maestri del cinema di Hong Kong.
Ritorniamo dunque sulle sparatorie, un susseguirsi facinoroso e travolgente di sangue e proiettili, spettacolarità dirompente tale da ricordare il miglior John Woo (Song Kang-ho non a caso impugna spesso due pistole) benché la messa in scena sia agli antipodi (assente, tranne nel pre-finale, lo slow motion); contemporaneamente gli scontri richiamo pure un certo cinema di Jackie Chan con
Kim che rielabora la maestosa gestione dello spazio scenico di Jackie e quindi una semplice canna di bambù può trasformarsi in una via di fuga e subito dopo in un'arma. Non contento Kim chiama in causa perfino Tsui Hark (nel secondo assedio Jung Woo-sung per spostarsi tra un tetto e l'altro usa una sorta di cavo richiamando la tecnica del wirework, molto amata da Hark) e nello specifico la sua verve nella rappresentazione delle scenografie: i villaggi del film sono si polverosi e decadenti ma ricchissimi di particolari con l'inquadratura zeppa di "cose" (pensiamo a Detective Dee).
Volendo spingerci un po' oltre notiamo altresì un velato messaggio politico, molti personaggi sottolineano di come il loro paese sia stato svenduto ai giapponesi e qui possiamo leggerla quasi come un'allegoria del presente con gli americani sempre più presenti sul suolo coreano.
Comunque spettacolo purissimo, un western fantasmagorico.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta