Regia di Kelly Reichardt vedi scheda film
La difficoltà di vivere e l'affiatamento rende un cane e la sua padrona dipendenti uno dall'altra, anche quando, per una serie di circostanze avverse, il destino sembra accanirsi contro di loro. Reichardt filma l'immensa America dei diseredati, della desolazione, puntando sul sentimento puro, non edulcorato da inutili melensaggini.
Wendy viene da chissà dove, non ha un indirizzo fisso, né un recapito telefonico stabile. Viaggia sola assieme alla sua cagnetta Lucy e la sua vecchia Honda Accord cercando di raggiungere l’Alaska, dove pare assumano con una certa facilità presso le grandi industrie di lavorazione del pesce, fornendo anche vitto ed alloggio.
Quando una mattina il guardiano del parcheggio ove si è fermata per trascorrere la notte per evitare di spendere gli ultimi risparmi rimasti, la obbliga a togliere la macchina da quel piazzale, la donna si accorge che la macchina non parte più.
L’uomo le indica un meccanico poco più avanti, chiuso però fino al giorno seguente.
Intanto la ragazza si reca in un supermarket e, sempre a corto di denaro – necessario ora anche per poter riparare l’auto – decide di nascondersi in borsa due scatolette di cibo per cani per poter sfamare il suo amato animale.
Scoperta in flagrante e denunciata, la donna trascorre quasi tutta la giornata in commissariato, col cane legato fuori al supermercato. Al ritorno Lucy non c’è più e la disperazione della ragazza diviene totale.
Il vecchio guardiano incontrato all’inizio saprà tuttavia rendersi utile, ma altre sorprese negative finiranno per condizionare completamente quel viaggio a due verso la ghiacciata ma tuttavia favorevole meta finale.
Kelly Reichardt ama gli spazi profondi, i treni merci infiniti che viaggiano piano ma inesorabili, senza mai fermarsi fino alla meta. Ma anche le storie intime che si sviluppano tra le anime che percorrono tali spazi immensi.
Anche questo bellissimo e toccante Wendy and Lucy, come diversi altri film dell’autrice (pure l’ultimo splendido Certain Women) inizia con una veduta dall’alto di un treno, e finisce con un treno che diviene lo strumento ultimo a cui ricorrere per raggiungere il paradiso di ghiaccio tanto agognato.
La scelta di Wendy sarà dolorosissima, ma tuttavia l’unica sensata dopo che la sfortuna, la freddezza circostante, il destino avverso, avranno contribuito con un accanimento diabolico a ostacolare il viaggio della speranza della solitaria ma tenace ragazza.
La Reichards dimostra un’altra volta, in questo suo riuscito e toccante secondo suo lungometraggio, di saper parlare al cuore senza ricorrere a manierismi di sorta o a sdolcinatezze fuorvianti. Il rapporto padrone e cane è descritto con un realismo che rende l’affetto reciproco tra i due esseri viventi palpabile, contagioso, credibile e sincero.
Michelle Williams, che con questo film stabilirà un legame ricorrente molto riuscito con la regista, è semplicemente straordinaria nel rappresentare un personaggio vinto dalle circostanze avverse, ma tuttavia mai arrendevole, nonostante la disperazione, la solitudine, il dolore di un abbandono prima forzato dalla situazione, poi scelto come male minore in attesa del riscatto futuro.
La cagnetta meticcia simpatica ed amante dei giochi di riporto di tutto ciò che le si lancia, assomiglia moltissimo, anche caratterialmente, al cane del precedente film “Old Joy”, tanto da indurci a pensare che possa essere lo stesso.
Qui la Reichardt passa dalla contemplazione tutta interiore del suo riuscito film d’esordio, a problemi estremamente pratici come quello di sopravvivere alla solitudine e alla mancanza di solidarietà (almeno iniziale), alla mancanza di una famiglia e di mezzi di sostentamento che consentano alla protagonista di raggiungere l’agognata meta, ancora assai distante.
Un film sull’America che soccombe dinanzi alla sua vastità, e dinanzi alla freddezza di borghi in cui la gente sopravvive chissà come, da quando industrie e aziende portatrici di occupazione sono ormai un ricordo lontano che si riflette sugli scheletri di fatiscenti edifici un tempo operativi ed ora abbandonati all’incuria spietata del tempo.
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