Regia di Steve McQueen (I) vedi scheda film
Persistenza. Perseveranza. La guardia carceraria impiega parecchi minuti a sciacquare il pavimento del corridoio, sul quale i detenuti hanno riversato le loro orine. La blanket and no wash protest è una rivolta autolesionistica, che sacrifica l’igiene ed il decoro personali; i detenuti dell’I.R.A. la stanno portando avanti da settimane, da quando il governo di Margaret Thatcher ha negato loro lo status di prigionieri politici. Vivono nudi, avvolti dalla sola coperta usata per dormire, non si lavano, non si radono, non si tagliano i capelli, e le loro celle sono invase dal sudiciume. Resistere alla sporcizia è la prima sfida. Tre anni dopo verrà quella della fame. La ribellione brucia a fuoco lento, ma è alimentata da una fiamma inestinguibile: l’ordine è non demordere, a dispetto del trattamento disumano autoinflitto o subito, per reazione, da parte di chi detiene il potere. Da un lato c’è la guerra al terrorismo condotta dalla Lady di Ferro; dall’altro la volontà di chi è disposto a tutto per realizzare i propri ideali nazionalistici. Su entrambi i fronti, l’inflessibilità è totale, è una forza micidiale che blocca tutto, ad eccezione dell’unico nemico davvero inarrestabile, che è lo scorrere del tempo. L’obiettivo è fermo, mentre Bobby Sands comunica al prete la sua decisione di andare incontro al martirio, alla terribile morte per inedia. E quei 66 giorni di agonia sembrano non passare mai, mentre il suo giovane corpo lentamente si consuma, il medico lo assiste muto ed impotente, e sua madre veglia, paziente e rassegnata, quel figlio che si sta volontariamente incamminando, senza il benché minimo cedimento, verso il punto di non ritorno. Il film di Steve McQueen è uno straziante tributo alla coerenza che travalica ogni limite, che è inchiodata nella testa e si scolpisce nella carne. Andare avanti senza conoscere ragione: anche un racconto può essere testardo, duro fino allo stremo per semplice rispetto della verità. Questo modo di narrare ci costringe a guardare la storia da vicino, a seguirla istante per istante, per scovare le sottili pieghe di riflessione nascoste tra le fibre di un canovaccio incredibilmente grezzo, intessuto di una perversione bestiale negli atti, ma sovrumanamente raffinata nella concezione. L’assoluto si manifesta qui nella spietatezza, verso sé e gli altri, ma la stessa insistenza è richiesta per farcelo capire, per toglierci ogni illusione che si tratti solo di una strategica messinscena. La visceralità della lotta per la patria e la religione si può fare di pietra: non basta il realismo visivo per trasmetterci questa sconvolgente idea. Hunger va oltre la cruda immediatezza dell’evidenza, per presentare la fredda parete di roccia che, in questo caso, si estende dietro l’orrore: un muro di convinzione, determinazione, necessità, intransigenza che serve da punto di appoggio per una lotta all’ultimo sangue. È una barriera che chiude la via della ritirata, e sulla quale gli inviti alla moderazione rimbalzano senza lasciare alcun segno. Sarà per questo che là dietro, sullo sfondo, si avverte solo un grande silenzio: la scena è vuota, le parole scarse, mentre i pensieri si raggrumano intorno all’impressione, netta e perentoria, che tutto sia assurdo, ma non ci sia proprio nulla da fare.
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