Regia di Steve McQueen (I) vedi scheda film
Forse potrà sembrare una presa di posizione paradossale, ma personalmente credo che "Hunger" sia prima di tutto un film umanista. Prima che un film politico, prima che un film sperimentale. Si è a lungo dibattuto sulla rappresentazione della violenza da parte dell'ex video-artista McQueen e sulla ambiguità ideologica che ne deriva. Al di là di tutte le disamine sul linguaggio e sulle scelte estetiche, ciò che resta di "Hunger" è lo strazio di corpi dilaniati dalla cieca foga della Repressione, ma anche dal peso delle proprie scelte. Anche qui, come nel successivo "Shame", la compostezza kubrickiana delle immagini non nasconde, anzi accentua (per antifrasi) l'orrore del contenuto. Non è nè iperrealismo, nè espressionismo: ma una specie di nudo formalismo che li include e li supera entrambi, ricorrendo ad una stilizzazione continuamente corrosa, contaminata e messa sotto scacco dall'evidenza insostenibile della carne flagellata. "Hunger" è un film geniale sin dalla costruzione narrativa. E' una specie di suite tripartita: prima il calvario fisico e morale di chi la violenza subisce (i prigionieri politici), ma anche di chi la attua per lavoro (dal responsabile del carcere in crisi esistenziale al celerino impaurito); poi il lunghissimo dialogo in piano-sequenza fra Bobby Sands e il parroco; infine la corsa verso l'auto-annichilimento da parte di Sands. Tre capitoli di eguale intensità. Nel primo, si avverte quasi il tanfo delle maleodoranti celle, si coglie la paura negli sguardi dei carcerati, ci si imbarazza per l'affanno con cui si scambiano segretamente messaggi e oggetti proibiti a mezzo bocca, naso, vagina, si prova pena e impotenza per il dramma vissuto dal capo del penitenziario, ci si lascia investire dalle parole della Thatcher che risuonano cupe e crudeli lungo corridoi foschi e lividi. Ma soprattutto ci si rende conto dell'universalità dello sguardo mcqueen-iano, all'insegna di un umanesimo così protratto da sconfinare in un discutibile moralismo: è il caso della magistrale sequenza del pestaggio con gli agenti in assetto anti-sommossa. Qui la mdp si muove sempre elegante, geometrica, armoniosa ma tuttavia spaesata, come un macchinario in tilt, adottando ora il punto di vista dei celerini ora quello dei carcerati, in una sconsolata girandola che altro non fa che mettere in risalto l'assurdità (e l’ubiquità) della violenza; poi inquadrando Sands, così martoriato da accennare un'espressione estatica (in una inquadratura quasi identica a quella iniziale su Brandon in "Shame": là si soffriva per il piacere, qui si gode per il dolore); infine rivelando la crisi di pianto di un celerino, appartato mentre i suoi compagni effettuano il massacro al ralenti (e qui, la didascalica sottolineatura moralista di cui sopra). La seconda parte, invece, è uno dei momenti di cinema più alti e assoluti degli ultimi anni: in un piano-sequenza in cui Sands e il parroco vengono ripresi faccia a faccia, ciascuno di profilo, si articola un appassionante confronto dialettico sulla purezza contrapposta al compromesso, sull'ostinazione contrapposta alla resa, sulla fedeltà alla causa contrapposta al “buon senso”, sul valore della politica contrapposto a quello della propria persona. Quando il piano-sequenza termina, dopo un quarto d'ora, Sands si accende una sigaretta e viene ripreso frontalmente: finalmente, può sciogliersi, abbandonare per un attimo il suo ruolo storico auto-impostosi e giustificarlo per mezzo di un vivido ricordo adolescenziale. Il cuore spiega la mente; il sentimento della singola persona fa scattare la coscienza politica. Qui McQueen non è ambiguo: sta chiaramente dalla parte di Sands. Vince Sands. Le scelte stilistiche di questa parte hanno la funzionalità dei classici e la valenza teorica dei moderni: fanno pensare tanto a Griffith quanto a Godard. E a Kubrick ovviamente, fuori dai tempi e dalle correnti come nessun altro. Splendida la sequenza che introduce alla terza ed ultima parte. Un addetto lava il pavimento del corridoio e McQueen lo riprende ininterrottamente fino a quando non finisce il suo lavoro: un’altra ispirata e radicale pagina di cinema. C’è un chiaro, ma non retorico simbolismo in questa sequenza (la metafora della pulizia: dell’ambiente e della coscienza), ma c’è anche il rigore estenuato del miglior Bela Tarr. La parte finale è invece tutta dedicata al laconico, chirurgico, gelido, silente calvario di Sands, che si lascia morire di fame per la causa: lo sguardo di McQueen è paradossalmente oggettivo e soggettivo al contempo, registra la corrosa fisicità del nostro (un Fassbinder che non merita altro che superlativi) mentre visualizza il ricordo giovanile precedentemente evocato dal prigioniero. E’ contemporaneamente fuori e dentro Sands, medico e paziente, scienziato e artista: lo guarda soffrire, ma non può evitare che il dolore del personaggio corrompa il nitore delle immagini. Per la complessità tematica, la ricchezza di invenzioni registiche, la lucidità del discorso che non compromette la varietà di interpretazioni, la pregevole scansione narrativa, la suggestiva evocazione d’ambiente, la performance di Fassbinder, “Hunger” è senz’altro uno dei migliori film degli ultimi anni.
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