Regia di Steve McQueen (I) vedi scheda film
In un penitenziario dell'Irlanda del Nord, un sostanzioso gruppo di militanti dell'IRA (tutti giovani al di sotto dei trent'anni) protestano per ottenere dal governo inglese,sotto la rappresentanza della Lady di ferro Margaret Thatcher,lo status di prigionieri politici (perché la sua negazione annienta il significato stesso della lotta armata). Dalla protesta 'delle coperte e dello sporco', che si protrae già da tempo senza apportare concreti risultati se non violenti provvedimenti da parte della polizia carceraria, si arriva allo sciopero della fame a oltranza (fino a morire), a cui si sottoporrà un detenuto alla volta finché 'qualcuno delle alte sfere' sarà costretto (mosso dal sentimento elementare della pietà?) ad intervenire e porre fine a questo massacro autoregolamentato ed autoinferto. Camera d'oro a Cannes 2008,l'opera prima del britannico Steve McQueen approda finalmente anche nelle nostre sale (dopo 4 anni) sull'onda del successo (controverso) di Shame -sua opera seconda- e col medesimo protagonista, un intenso, magnifico Michael Fassbender, dimagrito oltre 20 chili per impersonare il 27enne Bobby Sands, punto di riferimento per tutti i suoi compagni di prigionia, il quale fu il primo (di 10 uomini) a sacrificare la propria vita soltanto per smuovere il pantano in cui si era inabissata la loro protesta.
Il videoartista McQueen sceglie di raccontare questo episodio realmente accaduto traducendo in immagini scarne e potentissime l’essenzialità,la lapidaria rigorosa primordiale brutale secchezza contenute nel titolo (anche per Shame è/sarà così). Risultato: gli ambienti spogli, i corpi nervosi e sottili , i volti provati, le azioni e le poche frasi, stringate e mai superflue, scrivono letteralmente il film. Che non è cronaca (per quanto nuda e cruda) degli eventi bensì una sua incisiva, efficacissima sintesi filtrata dalla sensibilità del regista, il quale sceglie il 'cosa', il 'come' e 'per quanto' riprendere. Ne vien fuori un'opera di scioccante bellezza, che nello straordinario colloquio tra Bobby e il sacerdote (la sola scena -con camera fissa- dialogata) racchiude tutto il suo senso, capace di staccarsi da ciò che nello specifico racconta per sublimarsi in un potente viaggio intorno al significato della vita, dentro il dolore, dentro la sofferenza fisica e morale, raggiungendo vette di poesia forse inaspettate. Se è pur vero che nel mondo reale le battaglie necessitano di coesione per essere vinte (qui sviluppando una muta fratellanza), è altresì vero che alcune di esse vanno necessariamente combattute da sole: così assistiamo al calvario solitario di Bobby, che simile ad un malato di qualsiasi malattia, deperisce e si consuma sotto i nostri occhi (e quelli impotenti dei suoi genitori, del personale medico-infermieristico, dei secondini), fino a non reggersi più in piedi — per un momento scorgiamo in lui il Cristo de La Pietà di Michelangelo — , a non sentire più, a non vedere più, fino a chiudersi al mondo circostante, a sottrarsi al contesto in cui si trova, al letto in cui giace, per ritornare indietro, in un altro tempo e in un altro luogo, quando, ancora ragazzo, capì con assoluta chiarezza quale sarebbe stato il suo ruolo (la sua funzione) nel mondo, quale il suo destino. Fino ad estinguersi.
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