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Hunger

Regia di Steve McQueen (I) vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Hunger

di AtTheActionPark
4 stelle

CONTRO HUNGER
 
Premessa. Per questa opinione mi riferirò solo ed esclusivamente al film in questione – dunque, senza premesse relative alle varie attività svolte del regista, essendo già state descritte bene da chi mi ha preceduto -, per cercar di mettere in luce le aporie che, a mio parere, affliggono il film. Sottolineo fin da subito che il voto, negativo, è da considerare da un punto di vista “ideologico”, dato che, ovviamente, a livello qualitativo (nel senso proprio di “fattura”), Hunger è di certo un’opera “migliore” di molti altri filmacci che, realmente, meriterebbero questo voto.
 
Innanzitutto: Hunger è un film d’arte, un film di protesta (o di denuncia, che dir si voglia), entrambe le cose, o nessuna di esse? Sicuramente, nel film, convivano più “spinte” su diversi fronti. Un primo problema che denoto è che la convivenza di questi aspetti non si traduca in una complessità, quanto, piuttosto, in una confusione.
Hunger vuole denunciare gli abusi della polizia inglese sui carcerati ribelli dell’I.R.A. Per farlo, utilizza uno stile decisamente ambiguo. Ovvero, inquadrature sempre molto evidenti, caratterizzate da décadrage, forti contrasti cromatici, jump-cut contrapposti a inquadratura smisuramente lunghe. Questo però, a mio parere, distrae. Tende, cioè, a farci dimenticare cosa stiamo vedendo, per porre la nostra attenzione sul come lo stiamo vedendo. In questo, il celebre piano-sequenza della conversazione con il pastore, è abbastanza evidente. Il nucleo dell’attenzione non cade di certo sul dialogo – essendo, tra l’altro, la “scrittura” del film uno dei suoi punti deboli, soprattutto se confrontata con la ricercatezza dell’immagine. Lo spettatore, in questa sequenza, resta colpito esclusivamente dalla lunga inquadratura statica, che, per la sua eccentricità, non può inserirsi filologicamente nel contesto del film. Facendosi “evidente” nella sua diversità l’inquadratura si dichiara. Il problema (e voglio sottolinearlo bene) non è tanto l’induadratura lunga – perché, in fondo, il cinema della lentezza è un cinema che mi attrae. La questione, piuttosto, è che è una inquadratura lunga, in un contesto che, per forza di cose, la rigetta. Lo spettatore non è pronto a questo stacco così forte: quindi dimentica o non si interessa all’azione, per entrare nell’ingranaggio (quasi ludico) di Mc Queen, che cerca l’inquadratura “ad effetto”. Ed ecco che, di tutta la questione “politica” che avrebbe dovuto trovare nelle scelte di Mc Queen, un adeguato (e avanguardistico, visti gli intenti) supporto stilistico, resta uno sbiadito ricordo. Ciò, proprio a causa della prepotenza di una messa in scena assolutamente invadente.
Un’altra questione che mi domando è: Mc Queen cerca l’empatia o il distacco? Anche su questo punto, non credo che il regista abbia le idee chiare. Di nuovo, la frontalità di molte inquadrature, che vorrebbero farsi tableau vivant, il lavoro su colori freddi, glaciali, la quasi totale assenza di sonoro, farebbero pensare a una volontà di distacco, non necessariamente brechtiano, ma comunque vicino all’austerità dei suoi protagonisti-martiri. Ma nemmeno qui, il regista sembra voler andare veramente a fondo. Ecco, infatti, l’apporto patetico dei flashback verso il finale – anticipati dalle dissolvenze incrociate dei corvi, mentre il protagonista ha degli attacchi. L’americanissimo (passatemi il termine) flashback finale in cui Bobby, prima di spirare, ricorda l’infanzia, è (personalmente) fuori contesto, e di dubbio gusto. Dunque mi chiedo: dove sono finiti tutto il coraggio e l’intransigenza che il film sembrava voler percorrere, tutto il silenzio austero di questi corpi opachi, senza storia, se si conclude, poi, nel patetismo spinto del ricordo? Di nuovo, Mc Queen (per chi scrive, ovviamente) non riesce a far coesistere, coerentemente, aspetti fortemente diversi e contrastanti.    
Trovo, inoltre, che il film pecchi spesso di ingeuità. Per fare un esempio, c’è dell’ingenuità, da parte di McQueen, nel voler esibire, per tutta la mezz’ora finale, il corpo denutrito di Bobby. L’attore, infatti, volutamente si mette in mostra – come un divo sulla copertina di una rivista fashion -, di nuovo per “dichiarare”, per esplicitare la propria magrezza. Il regista vuole mostrare a tutti i costi il lavoro (narcisistico) dell’attore sul proprio corpo, nobilitandolo attraverso luci “giuste”, inquadrature ad effetto, con un fare tra il posticcio e, appunto, l’ingenuo. Memore della video-arte, il regista “blocca”, “congela”. Ma il suo non è nemmeno un “mostrare” dettato da un intento meramente artistico. Di nuovo, il patetismo è dietro l’angolo. Il regista, infatti, non depriva di senso - come magari farebbe Bruno Dumont. Non va, attraverso quelle inquadrature, alla ricerca del cinema, spogliandolo. Fa l’esatto contrario: “carica”, cercando la pietas negli occhi dello spettatore. Eppure, l’intero film sembrava indirizzato da tutt’altra parte. Di nuovo, il viaggio ascetico, austero e rigoroso è tradito dalle belle inquadrature, così ingenue perché eccessivamente cercate.  
In conclusione, non mi sento di bocciare su tutta la linea Hunger (la bravura, ovviamente, c’è, ed è evidente). Eppure, trovo che il film di McQueen non sia esente da passi falsi, che mi fanno dubitare a quanti gridino al capolavoro. E poi, un dubbio, sempre mi assale: ma se fosse veramente questo film “contro”, duro e puro e senza compromessi, allora perché ha sempre e solo ricevuto elogi da ogni dove?
Un film che non mette dubbi, qualche dubbio me lo fa sempre venire.

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