Regia di Steve McQueen (I) vedi scheda film
Per apprezzare l'ambiziosa opera di Steve McQueen bisogna realmente calarsi nel contesto sociale della difficile situazione nordirlandese durante il primo mandato della Thatcher; Bobby Sands, leader del movimento di protesta, dopo aver scontato diverse pene in quanto membro del Primo Battaglione della Brigata Belfast, passò gli ultimi anni nel penitenziario di Long Kesh, dove assieme ad altri "prigionieri politici" iniziò un incessante ed agonizzante sciopero che l'avrebbe portato alla dipartita. Il regista, in modo da non perdersi troppo nell'intricata vicenda istituzionale, dedica completamente la macchina da presa all'ambiente carcerario (certe volte prolungando in maniera eccedente alcune parti non esattamente rilevanti). La scarnificazione interpretata dall'attore Michael Fassbender (performance proverbiale) appare tremendamente tangibile, tanto che ne è possibile avvertire gli spasmi ed i tormenti fino agli ultimi dolenti gemiti ante mortem. Ma la fase cruciale arriva più avanti nel film; è una conversazione tra Bobby e un prete (Liam Cunningham, ugualmente memorabile) catturata in un unico piano sequenza statico della durata di diciassette minuti. I due parlano di tutto, dalla religione, alla vita dietro le sbarre, le sommosse, i loro percorsi personali. McQueen costruisce una larga inquadratura su due personaggi che gradualmente trascende in discorsi più grandi ed elaborati, sviluppando un climax vertiginoso. La fotografia, di una bellezza artistica pittoresca, effonde l'aura soffocata delle luci delle celle e dei corridoi, accentuando argutamente le fasi di degrado e caparbio supplizio dei detenuti, ed evidenziando l'indifferenza delle forze dell'ordine nei loro confronti, decise più che mai a non riconoscerne lo status e ad abbandonarli al loro prefissato destino. Suono, silenzio ed esplosioni di brutalità alternano gli eventi in un ipnotico caleidoscopio. L'insubordinazione tracima in una veemenza caustica che si riflette sia sulla mente che sul corpo. Ogni azione sembra un catalizzatore in contrasto con le parole e gli avvenimenti conclusivi dipanano un cupo requiem. Disteso su un letto d'ospedale e respirando a malapena, Sands profila perfettamente un idealista della storia contemporanea vessato ingiustamente. Il tocco di una madre si agita, tornano i sogni dell'infanzia, mentre i tragici risvolti svelano le ultime ore di un martirio causato da un conflitto assurdo, uno sterminio efferato dimenticato nel caos e nella carneficina delle campagne repubblicane e lealiste che inesorabilmente presero piede nel corso degli anni. Il titolo, "Hunger", è un termine che non solo delinea quello che è accaduto; è stato scelto nel tentativo di riflettere una “fame” profonda, quella di un essere vivente che può combattere e perseguire ciò in cui crede. Bobby è infatti morto non solo fisicamente; il miraggio di indipendenza era così radicato nella sua determinazione, nel suo desiderio così ansioso di libertà (le reminiscenze da fanciullo in cui sono presenti degli stormi librarsi nell’aria non sono casuali), che era disposto a soffrire a causa d'esso. E trascendendo le immagini, questa utopia diventa un libro di memorie irreprensibilmente lacerante e galvanizzante.
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