Regia di Steve McQueen (I) vedi scheda film
La sospensione di chi è in bilico. E poi il silenzio: ogni parola rarefatta, a dispetto della violenza che, anche senza le parole, avanza fino all’inverosimile. Entra nei corpi, si cicatrizza nella carne, e dopo fiumi in piena di chi ha tante cose, represse, da confessare, il silenzio della sofferenza. Tutto ciò è il capolavoro di Steve McQueen, Hunger. La storia è quella che conosciamo grazie ad un altro bel film, In the name of father (1994): siamo nell’Irlanda del Nord, quella degli anni Ottanta. All’inizio seguiamo la routine quotidiana della guardia penitenziaria, Raymond Lohan, dal controllo della propria auto ogni mattina in cerca di un qualche ordigno esplosivo, fino al culmine di una giornata di violenze, perpetrate ad oltranza, i cui segni sono ben tangibili sulle nocche delle mani sporche di sangue e doloranti per i pugni inferti ai detenuti. La prigione è quella di Long Kesh, dove ce n’è per tutti i caratteri: dal detenuto dell’IRA, Davey Gillen, che si rifiuta di indossare l’uniforme carceraria, dopo essere stato completamente denudato e provvisto solo di una coperta, e viene rinchiuso in una cella già occupata, fino a Gerry Campbell, che nel frattempo per protesta ha imbrattato le mura di feci. I due inizieranno una convivenza tra colloqui con i famigliari e ulteriori forme di protesta, che culmineranno sempre in pestaggi e forme di coercizione violenta da parte dei secondini. L’ultimo detenuto sarà il ventisettenne Bobby Sands, che da subito si dimostrerà restio a qualsiasi azione intrapresa dai secondini, ne sortiranno brutalità varie, ma invece che piegarsi, Bobby inizierà un drastico sciopero della fame, per protestare contro il governo del Regno Unito, con lo scopo di ottenere il ripristino dello status di prigioniero politico, abolito dal primo ministro di allora, Margareth Tatcher. Lo sciopero della fame intrapreso ad oltranza da Sands il 1° marzo 1981, durato ben lunghi sessantasei giorni, causerà il suo decesso, per inedia, nell’ospedale della prigione. L’annuncio della morte di Sands scatenò all’epoca una serie di rivolte nelle zone nazionaliste dell’Irlanda del Nord. Questo film rappresenta il debutto folgorante di un regista britannico, Steve McQueen, da noi conosciuto attraverso un altro suo meraviglioso film, più recente, Shame (2011). Artista dallo sguardo straordinario, capace di raccontare attraverso la sola fotografia, plumbea e dai contorni luminosissimi, la scabrezza delle scenografie, fortemente descrittive e, soprattutto, capace di scrivere il cinema. Qui, il tema scelto è quello del dolore, personificato in un corpo/attore dalle eccellenti qualità, Michael Fassbender. Il film è scarnificato, come lo stesso corpo del protagonista, anche nei dialoghi, ma possiede un violento e potente impatto visivo/emotivo, ch’è capace di creare un’empatia straordinaria fra visto e vissuto. Insieme a Bobby Sands, tutti si percorre una sorta di via crucis della sofferenza, trasudando rabbia e lacrime. E se solo qualche giorno fa abbiamo fatto la stessa esperienza, attraverso il bellissimo film di Daniele Vicari, Diaz (2012), il film di McQueen é ancora più disturbante, crudo fino a toccare viscere, non per il volgare mostrare di piaghe e botte, quanto per l’esperienza della brutalità dell’essere umano, rispetto ad altri suoi simili. Vedere Hunger è come recarsi in un importante museo di arte contemporanea, attraversando, fino alla fine, la messa in opera dell’orrore umano. Ma è un percorso che si deve poter fare. Abbiamo bisogno di opere che ci facciano sperimentare, faccia a faccia, quello di cui siamo capaci. Solo così potremo esorcizzare, e forse eliminare, la violenza, che raggiunge sempre più vette acute. Infatti, nel film si fa esperienza di visioni, ora inframmezzate dal montaggio veloce, e poi, altre lunghe e coinvolgenti, realizzate quasi senza stacchi. Con le immagini di McQueen si ha un rapporto estremamente fisico, estremo. C’è il forte rischio del rifiuto, dinanzi a rifiuti di corpi, in caduta libera, perché l’unica libertà che rimane, a tutti, è quella di poter disporre almeno del nostro corpo. Facendone l’unica vera arma di ogni genere di resistenza.
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