Regia di Steve McQueen (I) vedi scheda film
Pare che qualche cosa si sia mossa finalmente intorno allo straordinario esordio cinematografico di Steve McQueen, uno dei più significativi di questi ultimi 10 anni (parlo ovviamente dell’ottimo risultato raggiunto con Hunger, vincitore per altro di una più che meritata Caméra d’Or nella sezione Un certain regard del Festival di Cannes di qualche anno fa) e che ci siano adesso buone prospettive per una sua visione allargata. Bisognerà vedere però come sarà effettivamente fatta la sua distribuzione in sala, e in quante città riuscirà poi ad approdare davvero (in base al numero delle copie che saranno rese fruibili e alla disponibilità degli esercenti a “rischiare”, visto il disinteresse crescente del pubblico pagante per il cinema di qualità), e soprattutto che tenuta gli sarà poi di fatto garantita, poiché per il momento è difficilissimo azzardare pronostici: non lo si vede ancora troppo in giro e se continua a circolare un po’ marginalmente, lo fa in forma semiclandestina e soltanto in qualche rassegna “specializzata” sponsorizzata dalle realtà d’essai delle città più organizzate e sensibili. Ricordo comunque agli interessati, che il film è anche reperibile in rete (in versione originale sottotitolata in italiano). Credo anzi (o almeno lo spero) che sia stato proprio attraverso tale fonte che una pellicola così importante ma poco considerata dal “sistema cinema Italia” abbia già potuto “godere” di un contatto e un rapporto più capillare col pubblico, certamente superiore a quello che gli era stato garantito dal suo semplice e un po’ frettoloso passaggio da un festival sia pure prestigioso come quello di Cannes (comunque sempre un po’elitario e abbordabile soprattutto dagli “addetti ai lavori” e da pochissimi altri fortunati).
Quello di Steve McQueen (e ne abbiamo avuto una conferma anche con il successivo Shame) è un cinema tutt’altro che schematizzato, che privilegia spesso l’enfasi dei dettagli, poggia la sua forza sulla potenza di un impatto visivo di insolita ed eccezionale levatura e sulla rarefazione dei dialoghi, visto che la sua linfa vitale si nutre anche di frequenti e prolungati silenzi sorretti però da movimenti di macchina a volte frenetici, altri più sussiegosi, finalizzati a privilegiare un particolare, un volto, un corpo, un gesto, e dove le parole diventerebbero assolutamente “sussidiarie” alla più esplicita e diretta esposizione empatica anche violenta di immagini spesso tanto crudeli e veritiere da risultare quasi insostenibili allo sguardo che non si peritano a mostrare in tutta la sua tragica fisicità, la carne nuda, degradata e martoriata dei protagonisti presenti sulla scena. Una modalità di rappresentazione tutt’altro che univoca comunque poiché il regista ha poi anche il coraggio e l’intelligenza di modificarsi all’occorrenza in corso d’opera arrivando a dare una forma diversa ma ugualmente “necessaria” al suo racconto filmico: qui ce ne dà una tangibile e significativa dimostrazione pratica piena di pathos e di partecipazione emotiva, proprio quando decide di “fermare” per un lungo tratto il vorticoso itinerare della macchina da presa per fissarla indelebile nella immobile staticità di una prolungata ripresa a “scena fissa” (a suo modo comunque ugualmente dinamica) durante un “confronto a due voci” serrato e persistente, che non poteva essere affidato altro che alla parola, e che infatti qui vive e si alimenta proprio della potenza traumatica che solo una sofferta intensità “verbale” di fortissimo impatto anche drammatico tutta affidata alla forza affabulatrice del parlato che in altre parti è invece meno presente e quasi sussidiario.
McQueen rivela quindi già al suo debutto, un eccellente talento coinvolgente ed appropriato che lavora di fino sulle immagini, con quel suo particolarissimo modo di esporre senza infingimenti, la sopraffazione, la sofferenza fisica, il dramma e la tragedia, e che di conseguenza e nonostante i silenzi, riesce a farlo diventare un film “gridato” quasi fino all’estrema lacerazione della voce, che è già un consolidato e personalissimo “stile di rappresentazione delle cose” davvero sufficiente a catapultare da subito il suo nome nel limitato pantheon dei cineasti più interessanti e innovativi del momento.
Il cinema, anche partendo a volte da differenti angolature (che chiamavano magari in causa più che i protagonisti incarcerati, il doloroso “sentire” delle loro famiglie, come accadeva per esempio – solo per citare il primo titolo che mi viene a mente – nell’altrettanto interessante pellicola di Terry George Some Mother’s Son - Una scelta d’amore per l’Italia - che privilegiava appunto il travaglio interiore e la sofferenza delle madri) si era già provato a raccontare altre volte la vicenda umana e politica di Bobby Sands, esponente dell’IRA morto in carcere insieme a un gruppo di altri suoi compagni di lotta a seguito dello sciopero della fame durante la cosiddetta “blanked and no wash protest”, ma a mio avviso nessuno dei registi che aveva affrontato anche con coraggioso ardimento la scottante materia, era riuscito a raggiungere la stessa intensità non solo di impatto, ma anche di denuncia e di coinvolgimento, che ha qui al suo attivo come elemento caratterizzante e catalizzante, proprio la capacità aver saputo traslare un prepotente atto d’accusa che non perde nulla della sua sconvolgente veemenza , in una vera e propria opera d’arte che lo trasfigura. McQueen è riuscito a farlo proprio scavando e lavorando su quei silenzi a cui accennavo sopra, rinnegando totalmente la retorica, e puntando soprattutto sui dettagli dei corpi impudicamente mostrati, sulla forza degli ambienti e delle facce, utilizzando al meglio il contributo emblematico di attori così partecipativi da accettare consapevolmente il rischio di trasformarsi alla fine in materiale umano da plasmare, da “martoriare” e quasi disintegrare, con la carne che progressivamente si emacia e si distrugge fra le piaghe e le pustole di una mancata alimentazione che l’abbandono della cura della propria integrità anche fisica trasforma in devastazione totale e progressiva di una “via crucis” laica che trascina inesorabilmente i suoi protagonisti verso l’agonia e la morte. E’ su questi elementi che il regista spinge il pedale al fine di rendere lo spettatore partecipe anche sensorialmente di un dramma politico e personale che ha la sua principale spinta propulsiva proprio nella inflessibile forza soprattutto morale di un uomo come Bobby Sands, che con il suo estremo sacrificio esposto brutalmente in primo piano, riesce a trasmettere un messaggio davvero inusuale, che è poi quello di essere riuscito a trasformare una protesta magari estrema, ma non inconsueta, in qualcosa di terribilmente simbolico, importante e definitivo: la storia di un uomo che utilizza il suo corpo proprio come un’arma, per ritrovare così – e riaffermare - anche fra le chiuse mura di quella oltraggiosa prigione, un necessario ideale di libertà (anche crudele ed estremo se vogliamo, visti gli esiti finali), da promulgare a costo della vita per far prevalere diritto e dignità.
McQueen è bravissimo anche a lavorare sulle assonanze sollecitate da contrapposizioni a volte molto dolorose e spiazzati, ma anche poggiate su momenti all’apparenza poco significati, ma fondamentali per l’economia generale del racconto, vedi l’insistito “sguardo” che si concentra sul dettaglio delle briciole buttate a terra da uno degli agenti di custodia – personaggio interpretato con tutta la sua gretta tracotanza da un ottimo Stuart Graham - mentre a casa consuma il pranzo preparato dalla moglie (vero e proprio preludio introduttivo al prolungato e sofferto finale del digiuno, ma anche suggerimento quasi subliminale a ciò che intende già da subito indicare il titolo scelto per la pellicola) o anche le sequenze che portano in primo piano i tortuosi corridoi del carcere, le nocche insanguinate delle dita delle mani o il fetore delle piaghe e degli escrementi che diventa quasi una trasmissione olfattiva indotta.
Se per buona parte del film, tutto è dunque affidato al potere delle immagini in un percorso narrativo anche drammatico quasi totalmente privo di dialoghi strutturato rigorosamente, con inquadrature frontali, carrellate e totali devastanti (e dove anche la”colonna sonora” è surrogata e sostenuta soprattutto dal vociare confuso degli agenti, dai rumori di fondo, dalle grida, dal sordo clangore dei pesanti cancelli di ferro che si chiudono inesorabili intorno ai prigionieri, dallo scalpicciare concitato dei passi, o persino dalla voce inflessibile, terribilmente autentica e “reale” della Thatcher che lancia dalla radio i suoi proclami), e sono quindi i particolari degli sguardi, delle mani, delle sopraffazioni violente ad essere privilegiati, con quel soffermarsi e indugiare quasi famelico della cinepresa nel mostrarci prima i corpi nudi dei detenuti, e poi le mura imbrattate delle celle, o anche le laide coperte che tentano inutilmente di proteggere nello spazio esiguo e straziato della sua prigionia il fisico ossuto di un uomo macilento, impudico ma dal fiero sguardo, seduto a terra sporco e infreddolito, che è poi quello prestato (sarebbe più appropriato dire “offerto” però) in modo magistrale al personaggio da un grandissimo attore a quel momento praticamente sconosciuto ai più come Michael Fassbender (che proprio da qui prenderà il volo per una eccezionale carriera duttile e “movimentata” che lo farà diventare una delle “icone” maschili più interessanti, capaci e versatili della cinematografia contemporanea, uno che davvero fino ad oggi non ha praticamente mai “sbagliato un colpo”) per come è stato coraggiosamente disponibile a farsi veramente “macellare” anche nella carne: la sua è un’interpretazione davvero sconvolgente (di quelle che si suol giustamente definire “da manuale”) per la trasformazione fisica a cui ha sottoposto il suo corpo riducendolo davvero “al lumicino” e la marcata, intensissima resa espressiva del suo sguardo intenso e accusativo.
Ed è poi anche e soprattutto la particolare illuminazione (una luce vividamente azzurrina) privilegiata dal regista per fissare meglio e in profondità nella mente dello spettatore le bellissime e al tempo stesso terribili sequenze del film, a fare davvero la differenza (ottima e di pregio anche la fotografia) e a rendere indimenticabile, indelebile e ancor più scioccante, la percezione di tutto ciò che viene mostrato senza reticenze, nel raccontare proprio le ultime settimane della vita di Sands, il suo progressivo degradare anche fisico verso la morte, con un senso della realtà quasi tattile, ma che sfugge da ogni possibile sensazionalismo anche estetico, filtrato come è dallo sguardo di un “artista” (definirlo solo regista in questo caso, sarebbe a mio avviso abbastanza riduttivo) che osserva e interpreta impietoso per risvegliare il raziocinio pensante del pubblico e che non ha timore per questo – come per altro ho già detto in apertura - di cambiare all’occorrenza e quasi all’improvviso registro e ritmo: se la cinepresa è stata infatti quasi sempre mobilmente vicinissima ai volti dei detenuti rinchiusi dentro le loro celle o ai corpo a corpo dei pestaggi nei corridoi mostrandosi freneticamente attiva proprio nelle riprese ravvicinate per rendere palpabili anche le percosse, si staticizza poi coraggiosamente in una lunghissima inquadratura fissa (della durata di una quindicina di minuti) realizzata in campo medio che esalta soprattutto la dilacerata potenza del verbale, e “disegna magistralmente” il senso di uno sfiancante confronto fra Sands e padre Morant (un altrettanto entusiasmante e centrato Liam Cunningham nel ruolo di un prete schietto e non convenzionale, ma soprattutto stimolante contraltare dialettico e “dibattimentale”) che seduti ai due lati di un tavolo discernono con la radicata passione delle proprie personali convinzioni sciorinando doviziosamente le loro personali punti di vista, diversi, contrastanti e assolutamente inconciliabili. Sono così proprio i concetti, le idee diversificate, lo scambio ideologico di due posizioni incompatibili, ad essere privilegiati n primo piano, affinché possano essere assimilati anche dallo spettatore senza distrazione alcuna per acquisirne il senso nella sua interezza che si può sintetizzare semplificando un poco, come lo scontro frontale delle ragioni della vita e della morte, entrambe irrinunciabili, esattamente come quelle di una protesta, necessaria per l’uno, quanto insensata per l’altro. E qui c’è uno scarto importante sottilmente nascosto nelle pieghe del confronto, perché a un certo punto risulta a mio avviso chiarissimo che non sono più le motivazioni della politica e dei differenti ideali ad essere discusse dai due “contendenti”, ma diventano semmai quelle private dell’uomo (di ogni uomo) che si rifanno ai ricordi d’infanzia e al significato della vita ad essere chiamate in causa, ed ecco che allora il passo si modifica di nuovo e l’inquadratura si stringe per focalizzarsi prima sul ravvicinatissimo, intenso primo piano del volto di Fassbender e poi staccare e concentrarsi su quello analogamente problematico e sofferto di Cunningham, quasi a voler significare che a questo punto il rapporto dialettico non è più fra due posizioni dottrinali (etiche e religiose), ma bensì fra due uomini che hanno fatto scelte differenti che non consentono loro di incontrarsi realmente, e che proprio per questo, il risultato finale non potrà essere che tragicamente ineluttabile.
Lo straziante ultimo quarto d’ora, ci mostra poi un uomo – il determinato Sands – mentre si consuma fino a morire da solo, di fame, in un carcere irlandese non in un’era lontana, ma bensì nel 1981, e McQueen e ce ne fa pienamente percepire la vergogna…. Una sequenza “straziata” che ci arriva come un vero e proprio pesantissimo pugno nello stomaco: immagini dolorosissime al limite estremo della sopportazione che solo la sensibilità umana e il talento anche creativo del regista, riescono a farci guardare fino al termine del martirio senza mai distogliere lo sguardo nemmeno per un secondo, consapevoli di assistere a una vera e propria tragedia che è soprattutto umana, e a una straordinaria riflessione sulla libertà e sulla purezza degli ideali da difendere ad oltranza, cosi quel che costi.
Il film è il drammatico racconto in immagini della rivolta attuata nel carcere nordirlandese di Maze all’alba degli anni Ottanta, quando – in piena era Tatcher – i detenuti IRA, per costringere il governo inglese a dare loro lo status di prigionieri politici, diedero prima il via ad uno sciopero dell’igiene, e successivamente, per iniziativa di Bobby Sands, ad uno sciopero della fame che portò alla morte dello stesso Sands e di altri nove detenuti.
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