Regia di Pablo Larrain vedi scheda film
Con le luci desaturate del maestro Sergio Armstrong, che ricordano le fotografie ingiallite di un tempo e le pagine odorose di stantio dei libri screziati dall'umidità, quelle che un alito di vento sbriciolerebbe sotto il peso degli anni, Pablo Larrain ci immerge nel paese monocolore e meschino dell'era Pinochet, il natio Cile, sorretto sulle gambe fragili del controllo governativo e della paura. In questo stato di polizia votato al liberismo e ai modelli culturali di stampo americano, il controllo e le rapppresaglie sono il carburante in grado di muovere una società ingrigita da problemi ben più gravi della mancanza di libertà politica quali la povertà materiale ed il malcostume nutrito dall'idea che solo la ricchezza può liberare l'individuo dalle fogne insalubri in cui è impantanato.
Il regime repressivo, quel regime che mise in fuga la giornalista Isabel Allende, il gruppo degli Inti-Illimani, i registi Raoul Ruiz e Patricio Guzman, si dice mise fine all'esistenza di Pablo Neruda, e incarcerò per anni Luis Sepulveda, fu la causa della modestissima vita a cui dovettero abituarsi molti cittadini e quasi tutti gli artisti cileni dopo il golpe del '73. Il ballerino Rául Peralta (Alfredo Castro) incarna, nel film di Larrain, tutta la società civile cilena di fine anni 70. Rául è un un'artista modesto, rimasto senza prospettive a causa del cattivo rapporto tra la cultura (non ufficiale) e la dittatura. Con lui, versano nella medesima condizione i giovani ballerini che, tra passi di danza e tentativi di ribellione politica, costituiscono un eterogeneo e poco coeso gruppo che cerca di mandare avanti, insieme alla proprietaria, un locale di scarso appeal nella periferia di Santiago. Fuori da quella sgangherata pista da ballo, però, c'è il rutilante mondo di Hollywood che eleva agli altari icone di stile che restituiscono il favore contribuendo al successo del cinema americano e del dorato e capriccioso star system, quello dei dollari cospicui e delle star belle e impossibili. John Travolta è il divo più amato e chiaccherato da quando, nell'agosto del 1978 è uscito nelle sale cinematografiche "La febbre del sabato sera". Rául è stregato dalle movenze del suo personaggio, Tony Manero, tanto da vederne, a ripetizione, il film, imitarne i passi in sala, ed anticiparne le battute. E quando un inutile e depurato programma della TV cilena cerca dei sosia di Travolta/Manero per una puntata in onore della febbre del sabato sera, Rául non esita a ricorrere a qualunque scorrettezza per apparire alla televisione e realizzare il proprio desiderio di celebrità nei panni eleganti di Tony Manero.
La decadenza della moralità nella società cilena è rappresentata da Pablo Larrain attraverso una luce slavata ed una rappresentazione povera e pacchiana degli ambienti popolari salvo tramutarsi nello scintillio di luci e colori accecanti presso gli studi televisivi, a degna rappresentazione del sogno irraggiungibile dell'emancipazione più facile. Ma la decadenza dell'individuo e dell'arte è rappresentata, ancor meglio, dagli oggetti disseminati dal regista che ostentano la visione consumistica del capitalismo occidentale, oggetti che rappresentano uno status symbol di un'arrampicata sociale tanto agognata quanto difficile da raggiungere. Per una TV a colori e la bobina di un film si può uccidere mentre un moderno frullatore, che lascierebbe a bocca aperta ogni casalinga, è il premio da agguantare ed ostentare per merito di un ballo che non è più arte ma bieca emulazione votata a conseguire un guadagno economico anziché la libertà espressiva dell'artista. E lo stesso premio finisce per rappresentare, forse, una cieca vendetta per tacciare una vita di fallimenti. Larrain immerge il racconto nelle atmosfere cupe del Cile della dittatura ma non è interessato ad approfondire un discorso politico, anche se il film ha una notevole valenza politica. Ciò che preme al regista, a mio avviso, è affrontare la miseria della società che non distingue più tra vittime e carnefici, tanto labile è la differenza tra le une e le altre. Le vittime sembrano meritare la morte come la vecchia fedele al partito o il falegname che approfitta della posizione per ricavare il maggior profitto. Nemmeno il pur bravo vincitore del concorso e la sua donna, che bramosa maneggia il premio della vincita, sembrano meritevoli di sopravvivere allo sfascio della società e all'impotenza dell'individuo, che in Peralta diventa metaforicamente sessuale oltreché artistica. Per contro l'assassino è un poveraccio che nella sua perversione elimina soggetti melliflui, ben lontani da un qualunque modello di virtù, vicini piuttosto alla meschinità del potere di cui sono complici. Peralta è un vile opportunista che si da alla fuga abbandonando ad un triste destino la sua "unica e disfunzionale famiglia" mostrandosi osceno e sporco come il vestito bianco imbrattato di feci. In un paio di riuscitissime sequenze si avverte tutta la brutale alienazione del protagonista. In esse le immagini si sfocano d'un tratto nel segno di un istinto omicida che scatta come un clic dando il là ad un impulso violento ed irrefrenabile. Larrain ci racconta la solitudine con la camera a mano sul protagonista in asterni scegliendo, a contrario, immagini fisse negli interni sbiaditi abitati da grigie esistenze, corpi magri e scalcagnati, sporchi e mal vestiti. Rául è trasandato ha la barba lunga e i capelli spettinati. Lo sguardo emaciato riconquista dignità solo nei panni surreali di quel ballerino che non è mai stato e mai diverrà. Nel corpo sinuoso di Tony arde una febbre logorante che non è di un solo sabato ma di una vita intera andata in frantumi. (V.o.s.)
DVD - Ed. Ripley's Home Video
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta