Regia di Pablo Larrain vedi scheda film
Tony Manero, o della disperazione vestita di bianco.
Un’ossessione di grandezza esterofila destinata a cadere di fronte alle piccolezze di un uomo senza un perché.
Nella Santiago del Cile del 1979 Raùl Peralta passa le sue giornate nella convinzione, e nel desiderio, di assomigliare al proprio idolo John Travolta; ne ripercorre le gesta danzerine in infinite visioni del relativo film, ne snocciola i passi in improbabili balere.
Intanto la città e la nazione sono scosse dalla repressione, qui invisibile, di Pinochet; e quella violenza, che sta avvelenando l’intera anima di un popolo, penetra anche nell’inesistente sistema immunitario di Raùl, portandolo alla reiterazione di crimini gratuiti che possano riempire di drammatico senso la semplice attesa di un riconoscimento (diciamo allora: Peralta intende assomigliare a Travolta e tuttavia agisce, o è agito, come i criminali di stato voluti dal dittatore. Violenza chiama violenza, chi si bea di sogni di alterità non può sfuggire alle contaminazioni dell’ambiente in cui si trova a vivere, essendone corrotto ed infestato là dove la violenza trova facile canale in un sistema di fragilissime autodifese etiche).
Pablo Larrain fa cinema sgradevole agli occhi e però impregnato di una notevole consapevolezza morale. La parabola di un uomo comune, pessimo portato degli interi guai di un popolo, è descritta senza compiacimenti ma con una oggettività che raggela. L’ambiente in cui Raùl si muove è quella di una Santiago marginale, che non lascia intravedere scappatoie e che tuttavia illude i suoi figli meno pronti circa la possibilità di un riscatto, in questo caso rivestito dell’alone quasi angelico di Travolta/Manero, eroe apolitico, forte soltanto di un talento fine a se stesso.
Cinema anche politico, dunque, irto di metafore ardue e capace di tratteggiare una violenza (negli omicidi ma anche nelle squallide scene di sesso, in cui la rappresentazione, potentemente e sgradevolmente vivida, dell’impotenza del protagonista si fa chiara estensione della soggezione agli avvenimenti di un intero agglomerato sociale) purtroppo necessaria, invincibile perché radicata nel brutale DNA imposto ad un’intera nazione.
Raùl cerca di ribellarsi al proprio destino di perdente, ma perdente resterà, nella incapacità di essere soltanto sfiorato dal bagliore di una ribellione politica, l’unica, in quegli anni, capace di dare un senso reale alla voglia di diversità. Il suo sguardo alla fine del film, quando si accorge di essere arrivato secondo al tristissimo concorso per sosia, resta dentro come l’icona di una mediocrità destinata ad una eternità sine die. In quello sguardo basso e ferito, forse, si riscontra finalmente una luce di tardiva consapevolezza: non era questo che voleva il regime? La condanna ad una vita di perenne opalescenza, l’impossibilità di spezzare le catene, fosse pure per una semplice fascia da persona più somigliante a Tony Manero. Raùl lo ha capito: sarà sempre un ingranaggio che gira a vuoto, perché altri lo stanno manovrando. A nulla è servito l’esercizio della violenza nell’attesa del sognato riscatto: Peralta è figlio coccolato della dittatura che promette e blandisce, quindi anestetizza e bastona.
La prova di Alfredo Castro è notevole: faccia da Al Pacino sudamericano, sguardo di tristezza indicibile, l’attore è un vero feticco di Larrian, con il quale fornirà un’altra memorabile prova in Post mortem, nuova lucidissima cronaca dalla dittatura, con una delle scene finali più incredibilmente drammatiche e claustrofobiche degli ultimi anni.
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