Regia di Bertrand Bonello vedi scheda film
Nell'emozione del momento i sentimenti dominano gli uomini più fortemente dei pensieri (Karl Phillip Gottlieb von Clausewitz)
Per me a volte diventa particolarmente difficile condensare il giudizio con un voto o con una manciata di stellette. Preferirei di gran lunga farne a meno in più di un’occasione, lasciando lo spazio esclusivamente all’esposizione particolareggiata della parola scritta (“nero su bianco”, insomma), che meglio di ogni altra cosa consente di esprimere sensazioni e riserve e di illustrare posizioni anche contrapposte fra i pro e i contro che nascono soprattutto dai sentimenti provati durante la visione e che ancora non si sono coagulati in un pensiero “certo”e definitivo, e quindi impossibili da palesare con la “sintesi” estrema del voto. Premessa indispensabile che mi sembra importante evidenziare proprio in questo caso, visto che una pellicola come “De la guerre” di cui intendo parlare - senz’altro pregevole, ma discontinua e “oscura” (soprattutto per chi come me l’ha potuta vedere per il momento solo in lingua originale senza l’ausilio di sottotitoli, e quindi con molte più zone d’ombra di quanto il film forse possiede in realtà) per la contraddittorietà espositiva delle tematiche (almeno a un approccio parziale come il mio, visto che del francese non ho un dominio così profondo da comprendere davvero tutte le parole nonostante che sia la lingua straniera che “mastico” meglio di ogni altra e che soprattutto per questo mio limite non sono riuscito d afferrare ogni cosa davvero fino in fondo) è risultata ai miei occhi pur nella strabiliante cura della fotografia di Josée Deshaies, abbastanza controversa ed ermetica.
Lasciando allora momentaneamente da una parte la “delicata” questione delle stellette che in qualche modo proverò comunque a risolvere alla fine, torno immediatamente a parlare di un’opera affascinante e originale come a me è sembrata nel complesso “De la guerre” di Bertrand Bonello che - come del resto tutto il cinema di questo particolarissimo regista (e parlo di quel poco che ho avuto l’occasione di vedere) - suscita forti stimoli (e altrettanti irrisolti interrogativi), alternando momenti di straordinaria compartecipazione ad altri forse più sterili e un po’ disorientanti (ulteriormente accentuati dai problemi di “lingua”a cui accennavo sopra) che rischiano di essere considerati da qualcuno quasi delle futili elucubrazioni intellettualoidi tendenti soprattutto a voler “spiazzare” lo spettatore, o peggio ad essere interpretate come soluzioni talmente estreme e ricercate da risultare persino irritanti.
Tutto si configura diversamente quando passiamo dal regno delle astrazioni a quello della realtà (von Clausewitz)
Certamente quello di Bonello è un cinema “speciale” per più di una ragione che può risultare anche abbastanza ostico per lo spettatore, o addirittura provocatorio come nel caso de “Le pornographe”, sua opera seconda (e se non erro, la sola ad essere stata regolarmente distribuita sui nostri schermi e successivamente resa disponibile anche per il mercato dell’home video), tutt’altro che un “pornazzo” discutibilmente sdoganato in un nome di una “nobiltà” pseudo-artistica come è stato sommariamente liquidato da troppi sprovveduti benpensanti alla sua uscita in sala a causa di una “esibita” esposizione di un momento particolarmente hard (per altro saggiamente affidato a “seri” professionisti di quel settore come Titof e Ovidie, visto che si trattava proprio di una sequenza di sesso di una pellicola in fase di lavorazione per il mercato pornografico) con conseguente “fellazio” in primo piano che qui potremmo davvero definire più volgarmente (scegliendo di essere politicamente scorretti come Bonello) un bel pompino eseguito a regola d’arte e tutt’altro che pleonastico nell’economia di una pellicola molto dolorosa e profonda che ha come protagonista Jacques Laurent, regista di hard “artistici” e libertari post sessantottini che occuparono un interessante spazio in quel segmento tanto abusato nel decennio dei ’70, e che, in crisi con la moglie e in profondo conflitto col figlio idealista che gli ha voltato le spalle, si trova ora costretto a ritornare sulla breccia dopo qualche decennio di inattività, con il disagio cocente di doversi adesso adattare al nuovo modo di girare un porno, diventato solo sciatto, squallido e mercenario. Un film insomma dove lo sguardo diretto sul mondo della perversione di un uomo costretto di nuovo a varcare la soglia del pudore davvero “oltre ogni limite”, potrebbe essere semmai leggibile come una vera e propria metafora del cinema “tout court” (oltre che della vita) e del fallimento delle utopie al livello più basso, e quindi più emblematico (il Mereghetti), con una esibizione delle cose senza reticenze, certo, ma prosciuga da ogni dimensione “scandalistica” strettamente connessa alla necessità di risvegliare il voyeurismo dello spettatore, grazie a uno stile rigoroso e austero che mostrava i suoi “riferimenti certi” in Monteiro e forse ancor di più in Pasolini.
Quel film era del 2001, ma Bonello non è stato certamente fermo in tutti questi anni, anche se si è dimostrato molto parco (e il disinteresse del nostro mercato è risultato pressoché totale) nel portare a compimento nuovi progetti all’interno di un discorso di autore decisamente “scomodo” e per alcuni persino “discutibile”, come ha confermato ampiamente il contrastato passaggio della sua ultima opera dal Festival di Cannes (parlo de “L’Apollonide”) la quarta in ordine cronologico, con la quale è riuscito nuovamente a dividere i critici fra quelli totalmente estasiati dal risultato (formale, poetico e ideologico) della realizzazione (quelli dei “Chaier du cinema” e conseguente scuola di pensiero) e i tantissimi altri – quasi tutti - che sono rimasti sostanzialmente “freddi” (o, come scrive “Segno cinema”, persino “disgustati”).
Per un giudizio però assolutamente in positivo, e quindi in contrasto rispetto a questa posizione quasi unanime virata al negativo, rimando comunque al bel pezzo pubblicato proprio qui sul sito da OGM di cui mi fido molto (//www.filmtv.it/film/44574/l-apollonide-souvenirs-de-la-maison-close/opinioni/603058/) che potrà costituire un ottimo incentivo per stimolare la voglia di recuperare la pellicolA in rete (o di scoprirla per valutarla serenamente in proprio, ove qualche illuminato distributore decidesse davvero di proporcela anche qui in Italia e la censura del mercato non la mantenesse ai margini riservandola a un numero troppo esiguo di sale).
Nel mezzo, c’è appunto “De la guerre”, la sua terza fatica che è del 2008, che a mio avviso suscita maggiori perplessità per la palese – e voluta - discontinuità anche di rappresentazione, e soprattutto per una forse un tantino eccessiva nebulosità della materia che rende un po’ accidentata la fruizione e la comprensione non tanto del messaggio prioritario, quanto dei tanti sottotesti che si avvertono “disseminati” nel percorso, in una messa in scena dove a momenti di straordinaria pregnanza se ne alternano altri più discutibilmente astrusi e da approfondire (che possono rimandare per certi versi al “ricordo” del Malle de “La luna nera”).
Particolarmente intenso risulta soprattutto il passo conclusivo che si concretizza in un piano fisso di circa quattro minuti di durata durante i quali il protagonista (un ispirato, sornione Mathieu Amalric al meglio delle sue possibilità) si limita a star seduto su una panchina con l’aria beata di chi sembra aver capito tutto (e non fa molto altro che guardarsi intorno con la curiosa disponibilità dei suoi occhi che osservano), intento ad ascoltare dal suo registratore portatile “She belongs to me” di Bob Dylan, eseguita in versione “live” dall’autore (che ha un’importanza indubbia anche se per me non ancora del tutto chiarita, in tutta l’opera come riferimento non solo “culturale”, visto che la pellicola si apre con una citazione ancora di Dylan: “Se non fossi Bob Dylan, penserei sicuramente che Bob Dylan ha molte risposte da darci”), mentre la varia umanità di tutti i giorni gli sta passando davanti indifferente e frettolosa, e dietro a lui – nella strada che gli sta alle spalle - passano veloci auto e pullman. Il suo sguardo un po’ sfuggente ma sostanzialmente ironico e quasi compiaciuto, sembrerebbe davvero volerci comunicare qualcosa in positivo, o almeno che lui nel suo percorso accidentato portato in primo piano dalla pellicola, ha davvero appreso molte di “quelle risposte”, visto che alla fine con il suo dimostrarsi nuovamente pacato e disponibile, ci dà la sensazione di essere riuscito a superare la crisi attraverso il recupero della “conoscenza” che gli ha consentito di ritrovare interamente se stesso nonostante tutto.
È sempre in base ad un presentimento vago della verità che si è costretti ad agire (von Clausewitz)
Se vogliamo provare a capire meglio di cosa si parla (precisando però che più che alla storia dovremo poi rapportarci a come è stata realizzata che è il vero e proprio “valore aggiunto” di questo intenso film) partiamo allora dalla definizione di una vicenda che di per sé potrebbe risultare di una semplicità assoluta e quasi imbarazzante, visto che appunto, come già si può evincere da quanto ho anticipato sopra, è la storia di un uomo alla ricerca di se stesso.
Il protagonista è Bertrand, un regista parigino sulla quarantina che vive una crisi di ispirazione – ma anche esistenziale - che lo porta a seguire un uomo misterioso ma molto carismatico, in un grande castello fuori Parigi immerso nel verde – Le Royaume (Il Regno) -, un luogo isolato e quasi utopico, dove si è insediata una strana comunità di giovani che vive lì alla ricerca della felicità che tenta di trovare provando a riappropriarsi di se stessi, sperimentando il distacco dal mondo e coltivando l’arte della guerra con le sue tecniche meditative e di battaglia (e dove è ancora il sesso ad essere nodale, come dimostrano le esasperate pantomime messe in atto quando i giovani con maschere di animali, mimano scene di copulazione anche estrema).
E’ in questo territorio quasi “fuori dal mondo” che l’uomo incontra Ulma, una ragazza italiana affascinante e poco “decifrabile”, che è la sacerdotessa a capo di questa specie di setta, una donna totalmente libera che si dichiara apertamente e senza inibizioni, dedita al “piacere permanente”, anche se ha compreso che raggiungere tale piacere – e mantenerlo attivo - è difficile proprio come combattere una guerra. Bertrand, irretito nel sottile gioco che lo intriga, non ha allora altra scelta che quella di decidere di lasciarsi andare e diventare a sua volta “guerriero” dentro a quella congrega un po’ folle.
Questa parte centrale che diventa un racconto quasi dicotomico, è il segmento più ostico pieno di simbolismi non tutti perfettamente a fuoco, comunque magnificamente costruito proprio sulle figure e sui corpi degli attori scelti come interpreti: Mathieu Amalric a cui ho già accennato sopra, più o meno sempre im primo piano, ma anche Asia Argento e le sue acerbe asperità recitative un po’ naïve (Ulma), e gli altri due personaggi nei quali si rispecchiano i due protagonisti, figure altrettanto emblematiche e, per più di una ragione, persino corrispondenti (quasi una “proiezione” o un “doppio” si potrebbe dire) rese adeguatamente ambigue dalla eccellente prova di Guillaume Depardieu (il fascinoso individuo con codino da samurai che lo introduce nella dimensione misteriosa e incantata della villa) e di Clotilde Hesme.
Bonello sembra insomma continuare un percorso che porta avanti con uno sguardo tutt’altro che neutrale e fieramente utopico chiaramente individuabile proprio nella pervicace tenacia con cui procede senza alcuna esitazione e incurante del pericolo di poter essere persino un po’ frainteso, nell’ostinarsi a raccontare una nuova storia tutta incentrata sulla strenua lotta dell’individuo nei confronti del mondo che lo circonda, improntata soprattutto sulla negazione e l’impossibilità di provare piacere. Sceglie per questo di puntare le sue carte sulla razionalità di un regista che tenta di opporre alla evidente perdita di sé (certezze e dimensione “umana”), proprio la sua capacita affabulatrice che lo induce a voler trovare il modo di poter continuare comunque a raccontare storie, a inventare trame per nuovi film anche se forse non vedranno mai la luce, contrapponendola però alla insinuante “fisicità” decisamente istintuale (e con la quale si trova a dover fare i conti dentro a una comunità dedita al godimento e alla guerra totalmente immersa nella rigogliosa opulenza della natura) che spesso ricorre alla trance indotta dalla musica al fine di raggiungere la necessaria trascendenza anche spirituale di cui abbisogna. Sembra quasi che il regista intenda far vivere così al suo protagonista, il medesimo dualismo esistente tra reale e immaginario, due piani sempre indefiniti e molto incerti, ma qui continuamente reversibili fra loro dentro a una pellicola dove è proprio il cinema a farla da padrone attraverso frequenti, raffinatissimi riferimenti intertestuali e suggestioni teoriche di forte presa empatica.
L'arte della guerra, considerata dal suo punto di vista più elevato, si cambia in politica (von Clausewitz)
Fra il Bob Dylan citato all’inizio come dichiarazione programmatica, e quello ascoltato in conclusione dal registratore (ma citato anche nel monologo conclusivo della Hesme - Louise - che lapidariamente sancisce: “non canterai mai come Bob Dylan, ma non importa: sei finalmente qui” che ha fatto in me immaginare un riferimento tutt’altro che casuale finalizzato forse a imbastire un possibile dialogo a distanza fatto di interlocuzioni proprio con “I’m non there” di Todd Haynes che lo precede solo di un anno, un’altra pellicola incentrata sul dolore che deriva dalla sofferenza di “non essere più là”) succede comunque un po’ di tutto. Se nella parte iniziale, e prima di incontrare il suo mentore, il tono è quasi da commedia che illustra in modo preciso e puntale e un po’ documentaristico la progressiva perdita “del senso della vita” di un protagonista un po’ incerto e traballante che girovaga stancamente per Parigi intento a visitare casse da morto e a visionare (dalla Tv) “eXistenZ” di David Cronenberg seduto comodamente su un divano prima quasi per caso, ma poi completamente irretito dalle immagini che passano sullo schermo, al punto da avvertire il bisogno di disdire persino l’appuntamento carnale già prenotato con una escort, una volta entrato nelle atmosfere quasi surreali della villa, il film finisce per assumere invece l’andamento di un dramma allucinato e un pò lugubre che ci porterà a scoprire anche scomode verità come quella che non è poi la creatura androgina che la Argento fa del suo meglio (o forse “quel che può”) per rendere attendibile, ad essere il vero capo della comunità: dietro di lei, a tirare davvero le fila delle cose, c’è un “grande vecchio” (bellissimo cameo di Michel Piccoli), una specie di capitano Kurtz della situazione, e non a caso cito questo nome, poiché se la principale linea narrativa riscontrabile nella pellicola, come già ampiamente dibattuto, è quella della redenzione e della purificazione, le fasi di ripensamento sono tante, e finiscono per raggiungere davvero vertici di assoluta e inusitata follia nella sequenza assolutamente “disgregante” ma che segna fortemente la pellicola, che può essere tutt’altro che impropriamente definita “alla Apocalypse Now per come è stata organizzata e realizzata, un momento di grande cinema che viene immediatamente prima di una conclusione che come si è già visto, racconta di una ipotetica ritrovata pace finale sulla panchina che suggerisce appunto quanto l’esperienza dentro la villa e la condivisione della vita nella comunità, “guerra” compresa, sia risultata per l’uomo proficua e rigeneratrice.
Per il resto però lo spettatore è spesso costretto a passare molto del suo tempo a tentare di capire che cosa diavolo sta davvero succedendo, a cosa intende alludere il regista, nel suo affaticato districarsi tra voci interiori, concerti per pianoforte, orge e baccanali, con quel richiamo frequente alle dotte citazioni di von Clausewitz[1] (di cui ho fornito ampio florilegio, magari non tutto pertinente, ma comunque “affine” alla rappresentazione) e non sono del tutto certo che il suo sforzo possa essere completamente ripagato in positivo.
Ecco perché parlo allora della difficoltà di dare un voto conclusivo che - se si elude quello del “capolavoro” (le 5 “stelle” ) - può essere benissimo uno qualsiasi di tutti gli altri disponibili, a seconda della disposizione del pensiero di chi osserva e della difficoltà oggettiva che si è dovuta affrontare per rendere meno arruffato il bandolo della matassa.
Da parte mia, preferisco però considerare la pellicola come una straordinaria occasione che mi è stata offerta per verificare e confrontarmi (provando anche molto piacere e qualche irritazione) con l’insolito, inusuale, bizzarro talento di Bonello, un artista davvero a “tutto tondo” (regista, sceneggiatore e musicista, tutti “compiti” che concentra egregiamente su di sé anche in questa pellicola). E allora pur fra tanti interrogativi rimasti aperti, in attesa di una prossima nuova visione che mi chiarisca i punti rimasti oscuri dentro la mia testa un po’ confusa (che realizzerò al più presto, non appena mi verrà recapitata la versione in DVD già circolante in Italia che ho ordinato dal mio abituale fornitore, resa disponibile da Atlantide Entertainement, ancora in lingua originale, ma fortunatamente dotata dei necessari sottotitoli che ne renderanno più facile la decodificazione), visto che un voto poi lo devo dare (me lo chiede il sistema) opto al momento per le quattro stelle in attesa di “revisione” come si dice in questi casi(non me ne voglia chi dovesse dissentire anche clamorosamente: comprenderei perfettamente le ragioni del disaccordo… e poi potrei benissimo essere stato io a prendere una clamorosa “cantonata” e non sarebbe certo la prima volta che mi capita!).
[1] Karl Philip Gottlieb von Clausewitz (1780- 1831) è stato un Generale prussiano attivo combattente durante le guerre napoleoniche. E’ diventato famoso soprattutto per aver scritto il trattato di strategia militare “Della guerra” (Vom Kriege), pubblicato per la prima volta nel 1832, ma mai portato a termine a causa della precoce morte del militare/scrittore.
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