Regia di Jerzy Skolimowski vedi scheda film
Leon Okrasa (Artur Steranko) lavora come addetto al crematoio nel piccolo ospedale della sua città, è orfano da quand’era molto piccolo ed è stato cresciuto dalla nonna con la quale ancora vive. Qualche tempo prima gli è capitato di assistere impotente alla violenza carnale di una donna. Questa donna è Anna (Kinga Preis), che fa l'infermiera all’ospedale e come lui abita nel caseggiato adiacente alla struttura ospedaliera. Leon si innamora di Anna e si mette ad osservarla continuamente con un binocolo dalla finestra di casa sua. Una notte decide di penetrare nell’appartamento della donna, così, semplicemente per starle accanto e guardarla mentre dorme. Ripeterà la cosa altre volte dando vita ad un modo tutto suo di amare la donna dei suoi pensieri più dolci. Un modo che nessun altro potrà capire.
“Quattro notti con Anna” segna il ritorno in patria di Jerzy Skolimowski a diciotto anni di distanza dalla sua ultima fatica (“l’inglese” “Thyrty Door Key” tratto dalla penna del connazionale Witold Gombrowicz). Un lasso di tempo che non ha affatto intaccato la sua vena creativa, che sembra quasi arricchita da un grado di consapevolezza artistica più ricco e maturo, da una capacità di analisi sullo stato delle cose perfettamente in linea con la mutevolezza del tempo e dello spazio (in questo seno, i successivi “Essential Killing” e “11 minutes” sono dei veri prodigi). Qui si mette al servizio di un film “intimista” caratterizzato da un’estetica ineccepibile, una potente e garbata riflessione sul senso di colpa che si fa un inno all’amore e per l’amore. Protagonista indiscusso del film non è tanto Leon Okrasa con la sua condizione di disadattato sociale, ma la sua essenza di uomo votato alla solitudine, il suo preferire l’idealizzazione dell’oggetto guardato alla concretezza diretta della comunicazione parlarlata. Soprattutto dopo la morte della nonna, la sua solitudine acquista un carattere quasi patologico, come di cosa irredimibile, addirittura incontrovertibile. La regia di Jerzy Skolimowski ci mette molto del suo a fare della solitudine un oggetto materico, un qualcosa di sensibile al tatto, con una sua sostanza corporea. Perché non basta presentare gl’ingredienti tipici della persona solinga per rendere l’idea della solitudine, occorre dargli una forma visiva, delle traiettorie ambientali, è necessario saperla disegnare negli occhi e possedere la perizia tecnica di saperla proiettare oltre il suo contesto narrativo. Perché qui non si tratta “semplicemente” di presentare il carattere di un uomo costretto a convivere con la sua solitudine, qui la solitudine è un fatto che si è posato sulle cose, sta nell’atmosfera rarefatta che serpeggia dentro i luoghi, nel degrado calcolato che disegna l’arredo urbano, nei caseggiati “vintage” partoriti dalla Polonia che fu. Una sensazione di dismissione latente che cinematograficamente è resa attraverso dei colori opacizzati (la fotografia è di Adam Sikora) e un ritmo narrativo che si adagia alla laconica lentezza di Leon Okrasa. Oltre che dalla tecnica di montaggio (di Cezary Gzsesiuk), che si preoccupa di colmare ellissi narrative attraverso dei flashback che più volte arrivano a supportare la consistenza del racconto. Interventi sempre puntuali, sufficienti a fare le adeguate ricognizioni del caso, che ci portano all’origine di un episodio violento che in entrambi susciterà implicazioni dolorose e quindi all’inizio di un rapporto “asimmetrico” che in Leon avrà la forma di un’ossessione totalizzante e i contenuti di un amore alieno. Un amore innocuo ma frainteso, da custodire in quanto fonte unica di salvazione.
Le premesse insolite che fanno da sfondo all’emergere inaspettato del sentimento amoroso, rimandano di getto a “La ragazza del bagno pubblico”, uno dei “classici” di Jerzy Skolimowski degli anni settanta. Ma qui si va molto oltre nella costruzione “sui generis” di un travagliato rapporto d’amore, fino a rendere Anna la componente ignara di un disegno sentimentale che nasce e si sviluppa in sua assenza. È questo a rendere emotivamente coinvolgente tutto il film, il fatto che Anna è idealizzata prima come donna e poi come amante, venerata ben oltre la sua ordinaria esistenza, contemplata al di la della sua cosciente presenza. L’autore polacco riesce ad equilibrare la freddezza plumbea della messinscena con il calore umanizzante dei contenuti narrativi, l’asetticità dei luoghi con la passione tenuta a freno dai corpi. Tutto sembra essere assorbito dall’anaffettività evidente che emerge dalla caratterizzazione d’ambiente, eppure riesce a suscitare commozione la storia di quest’uomo che parla poco e cammina rasente i muri, un uomo a cui basta accudire di notte la donna amata per nutrire la sensazione di poter vincere le sue innate ritrosie e venire a capo dei popri sensi di colpa. Non c’è morbosità nel suo comportamento, nessuna deriva voyeuristica interviene a macchiare la sincera dolcezza del suo sguardo allucinato, che è quello di qualsiasi essere umano che non può che assistere impotente alla violenza perpetrata dai forti sui deboli, alla morte che prima o poi arriva ad accrescere il senso di solitudine. E alla costruzione di muri sempre più alti, che tolgono libertà allo sguardo.
“Quattro notti con Anna” è un grande film che segna il ritorno al cinema di Jerzy Skolimowski, uno che si è “autotoesiliato” dalla Polonia comunista per fare il cinema che preferiva fare. Un autore importante che ha anche fatto commedie abbastanza leggere, ma che si è caratterizzato soprattutto per un cinema marcatamente contemplativo, capace di fornire riflessioni sempre acute sullo stato delle cose. Costringendomi a dover semplificare, credo che una sua prerogativa peculiare sia quella di saper usare la giusta misura nell’architettare situazioni drammatiche, senza fare che il senso del tragico si prenda per intero la scena. C’è sempre una sponda umanizzante a fare capolino lungo il suo cinema intriso di pessimismo, un’irridente vena di sarcasmo a dare fiato alla gravità della messinscena. Un grande autore che ha ancora molto da dire.
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