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Il canto degli uccelli

Regia di Albert Serra vedi scheda film

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La recensione su Il canto degli uccelli

di OGM
10 stelle

L’immagine sonnecchia e balbetta nella penombra, in attesa di quel risveglio che si chiama Rivelazione. Durante il loro pellegrinaggio verso il luogo della Natività, i Re Magi ci voltano le spalle e parlano poco, e spesso in maniera confusa; arrancano lungo il percorso ed appaiono fasciati di un’umanità goffa ed inibita, che li avvolge come i loro lunghi mantelli. La loro irresolutezza è la sintesi di tutti i nostri limiti, che ci rendono insicuri di fronte alle incognite del futuro. I tre uomini si sentono a disagio perché non conoscono la strada. Per questo motivo intavolano discorsi che girano a vuoto, come i pensieri che popolano le loro menti. Il mondo sembra loro inadeguato, troppo vasto o troppo angusto, ed essi stessi si sentono diversi a seconda dei casi, a volte tanto leggeri da poter attraversare le nuvole, altre volte così pesanti da non riuscire ad alzarsi in piedi. Il deserto in cui, in una lunga sequenza del film, perdono l’orientamento, è la solitudine che, per assenza di termini di confronto, fa venir meno il senso delle proporzioni e delle distanze. La direzione da prendere è diventata un’idea dai contorni indistinti, perché la missione da compiere si è trasformata in una vaga speranza di giungere a destinazione. I tre uomini sono ridotti ad ombre fluttuanti nell’aria, con quelle vesti sollevate dal vento che ne sfumano i tratti.  Il moto vibrante delle loro sagome scure è il fremito dell’ignoranza, del non sapere dove si trovi la meta. La verità, invece, è una figura angelica e luminosa, che sta ferma, mentre ci guarda dritti in faccia; non si muove, perché è già arrivata.  È circondata di luce, mentre, per gli esseri umani, su questa terra è quasi sempre notte; il buio è la dimensione in cui tutto scompare, tranne il cielo, e che, offuscando la coscienza  del tempo e dello spazio, fa sorgere tante domande. È già tramontato il sole, quando Giuseppe chiede a Maria se siano le  sette o le otto, se abbia già fatto programmi per l’indomani, se loro figlio Gesù stia dormendo. Le risposte, però, rimangono in sospeso, perché a noi non è dato di conoscere la nostra collocazione nel Creato; nell’oscurità, anche l’innocenza (rappresentata dall’agnello) si aggira in preda all’inquietudine. Per contro, il chiarore del giorno è fatto di sole accecante che si posa sui sassi e sugli sterpi,  e che opprime con la sete, con l’afa e con la noia. Dio c’è, ma è invisibile, almeno al principio del nostro cammino. Maria è inizialmente inquadrata di schiena, mentre tiene tra le braccia il bambino, poi ci concede di scorgerlo da lontano, e solo alla fine madre e figlio ci appaiono di fronte, in primo piano, nella tradizionale posa ritratta dall’iconografia cristiana.  Quello è l’approdo celeste, ma non quello terreno, perché per la carne non c’è ancora pace: ad attenderla vi sono la prostrazione fisica, e la necessità di andare oltre, visto che un nuovo pericolo si sta avvicinando, ed occorre fuggire in Egitto. Nella trasposizione cinematografica di Albert Serra, i Re Magi cessano di essere i carismatici personaggi del presepe, per diventare individui qualunque, che ansimano nelle salite, hanno male ai piedi, sono stanchi di mangiare sabbia  e per questo si riposano, chiacchierando del più e del meno, sdraiati nella frescura di un bosco.  Le loro presenze sono prevalentemente corporee, afflitte dalla vecchiaia, dall’obesità, dall’insonnia, dagli incubi notturni e da tutte quelle preoccupazioni che distolgono dalla preghiera e dalla contemplazione. Non sono né i saggi, né i potenti venuti dall’Oriente, seguendo la scia di una stella cometa, ma solo tre persone comuni, anzi, tre schiavi - come si autodefiniscono - la cui funzione è l’adorazione intesa come sacrificio e prova di umiltà.  Ne Il canto degli uccelli la realtà evangelica è calata nella storia e condensata in una drammaturgia volutamente povera e stentata, che ruota intorno all’Illuminazione annaspando nella polvere.

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