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Le tre scimmie

Regia di Nuri Bilge Ceylan vedi scheda film

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La recensione su Le tre scimmie

di ROTOTOM
6 stelle

Vivisezione di un interno turco. Un potente politico uccide per sbaglio un uomo e convince il suo autista a incolparsi al posto suo in cambio di denaro per poi diventarne l’amante della moglie. Il gruppo famigliare si sfalda così in un reticolo di disperata incomunicabilità e incomprensione. Annegata in una fotografia digitalizzata ed estetizzante si compie l’amorale disfacimento della famiglia, espresso in equazioni di menzogne il cui risultato è l’ inevitabile solitudine. Lo sguardo entomologico del regista, che filma tutto o quasi in un’attonita camera fissa, è valso il premio a Cannes 2008 come miglior regia anche se la sensazione, assistendo a questo dramma, i cui snodi narrativi sono ampiamente prevedibili, è di un esercizio di estetica delle relazioni interpersonali lasciando la passione e l’empatia emotiva al di fuori dell’appartamento entro il quale si svolge gran parte della vicenda. Empatia che viene cercata a forza scavando tra le pieghe degli attori, tutti bravissimi, ripresi molto spesso in primo piano sorpresi nell’esibizione del trasmettere dolore. Film molto attuale nel sottotesto: disgregazione e incomunicabilità della famiglia, deresponsabilizzazione, sopravvivenza di un modello famigliare di tipo patriarcale in cui la donna è sempre oggetto e comunque colpevole, soprattutto di provare emozioni che non siano filtrate dall’obbedienza all’uomo marito-padrone. Il senso di colpa è la gabbia che blocca i componenti della famiglia in un diagramma di gesti e convenzioni che hanno perso la rassicurante ritualità domestica per divenire espressione fisica dell’incapacità di rimuovere quello stesso senso di colpa che lentamente marcisce nei corpi, nella mente dei personaggi spandendo infelicità. L’insostenibilità di questa condizione porta alla violenza, il gesto estremo, l’esternazione inconscia di un disagio che richiede soddisfazione e che prende forma anche e soprattutto nei momenti di mistico onirismo in cui il bambino morto, figlio minore della coppia, si ripresenta sotto forma di entità, di presenza quasi fisica nei momenti di maggiore tensione. Colpa che viene comunque scaricata facilmente, in un contesto di estremo classismo sociale, sugli strati più bassi, disposti a tutto pur di sopravvivere e con essa viene rimossa la coscienza di una società non più in grado di assumersi alcuna responsabilità. Un merito del regista, è di non cadere nella trappola del verboso film a tesi, anzi, i silenzi e gli sguardi vincono sui dialoghi, scarni e funzionali alla comprensione della vicenda senza sostituirne la messa in scena. Molto buono il lavoro sui suoni ambientali che formano una colonna sonora straniante e invasiva, emanazioni di una quotidianità ossessiva e implacabile che ormai impadronitasi dei personaggi, li accompagna verso il disastro con brutale indifferenza. Il mondo esterno non si accorge del dolore, lo soffoca con i rumori, non vuole sentire, tutto deve andare avanti cercando di sopravvivere alla meno peggio. I personaggi sono in gabbia, schiacciati in ambienti angusti e ingombri, i corpi si sfiorano e si sospettano, si scrutano avvertendo i rispettivi umori senza mai provare una qualsiasi complicità, amore o solo compassione.
La visione pessimistica delle relazioni umane è valso al regista, qui al terzo lungometraggio, la definizione di “Antonioni turco”, appellativo di sconsiderata esagerazione che manifesta ancora di più il disperato bisogno di grandi autori. Questo, benché sia un buon film, rimane impigliato in una forma di estetismo autocompiaciuto a solenne consacrazione del regista, senza un reale approfondimento sui caratteri e le azioni dei personaggi, della disperazione ne registra la forma, le conseguenze e non le cause se non quelle palesi che servono da motore per l’avanzamento della storia. Nel teatro morente dell’incomunicabilità, in cui le gabbie sociali vengono parcellizzate fino a separare gli esseri umani gli uni dagli altri, Ceylan è la quarta scimmia, quella che ripete gesti e suoni, ma senza una reale consapevolezza di ciò che intende comunicare.

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