Regia di Jia Zhang-ke vedi scheda film
Ripensare il cinema attraverso il documentario. Plasmarlo, stravolgerlo; riconsiderarlo luogo di sperimentazione attiva. Sono queste le coordinate principali di gran parte del cinema contemporaneo più innovativo e veramente «nuovo». Trasformare un campo come quello documentaristico, superando la semplice indagine "oggettiva" della realtà per farne luogo di viva e audace sperimentazione.
È il caso di 24 City, del cinese Jia Zhang-ke, tra i registi più radicali e attivi in questo campo nel cinema contemporaneo.
Se, infatti, con il precedente Still Life Jia Zhang-ke aveva sfiorato l'approccio documentaristico sfruttando comunque una linea narrativa di finzione (ma affiancando il film al documentario-fantasma Dong), con 24 City il regista cinese si spinge ancora più a fondo nella sua poetica "docu-finzionale". Intrecciando le interviste reali di operai - licenziati da una fabbrica chiusa per lasciar spazio ad un nuovo centro residenziale: il 24 City - a monologhi femminili di finzione, Jia Zhang-ke pone il suo cinema, ancor più che in passato, in un problematico "interstizio" tra finzione e realtà; debitore in questo del maestro iraniano Abbas Kiarostami, in cui la diegesi si presenta sempre come oscillante e problematica (pensiamo all'ultimo Copia conforme). Il regista cinese sfrutta inoltre la poetica brechtiana dello straniamento, alternando le interviste a tableau-vivant che richiamano direttamente ad un altro grandioso esempio di "fusione" come Il maestro burattinaio di Hou Hsiao-hsien.
Con grande coerenza, senza cedere ad alcun compromesso, il cinema di Jia Zhang-ke prosegue così la sua indagine di una Cina stravolta dalle mutazioni sociali, attraverso uno sguardo assolutamente «moderno». Il ché, oggi giorno, è ormai raro.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta