Regia di Gianni Amelio vedi scheda film
La prima cosa che colpisce ne Il ladro di bambini è la lucidità dello sguardo di Amelio. Non è da tutti rappresentare un rapporto che cresce poco a poco, e soffermarsi con levità sugli scarti, le differenze, le disillusioni e le diffidenze, senza indulgere ad una prosopopea di cui il cinema italiano fa ampio uso ed abuso. Così come non è da tutti lasciare che la macchina da presa si faccia obiettivo fotografico: nell’indagare i corpi e soprattutto i volti, nel registrare con accenti di assoluta equidistanza la realtà polverosa e calda di certa Italia, purtroppo inesorabilmente brutta nelle architetture soffocanti, nelle strade ed anime che si abbandonano inerti ad un destino fintamente soleggiato, nella burocrazia cieca ed assassina.
Ed allora il film è fondamentalmente la storia di un viaggio, inteso nella sua duplice valenza fisica e psicologica. Struttura on the road, ma svolgimento fatto di movimenti pochi, quasi impercettibili, e dialoghi scarni, ridotti all’osso nel tentativo riuscito di dipingere una tenerezza sotterranea destinata prima o poi ad esplodere. Indicativa, tra le altre, la scena finale, con i due fratelli che, per un attimo probabilmente destinato a durare tutta la vita, riscoprono l’insopprimibile vincolo del sangue in pochi gesti di soffice complicità, di fronte ad un mare che per loro non sarà mai infinito. Una tenerezza che a poco a poco si apre sul bel volto ligneo di Lo Verso, complesso e stratificato uomo del Sud, di cui Amelio omette il solito compunto bignamino del passato, per renderne la figura di giovane ragazzo in divenire, quasi attonito di fronte ai primi sussulti dell’istinto paterno.
Intorno, percorsa e scossa da una musica anni ’80 non tra le migliori (nonché rappresentata in forma quasi afona e gracchiante, quale colonna sonora invisibile e indifferente ai destini) sta una umanità fedele al proprio ruolo, deterministicamente assegnato da norme e modalità di pensiero rocciose ed inscalfibili. I carabinieri ligi al dovere, ed inattaccabili di fronte alle regole non codificate della umana comprensione, le donne di città/paese che leggono i giornali da parrucchiere e su di essi forgiano un pensiero debole che di filosofico ha ben poco, essendo piuttosto il portato della cedevolezza al pregiudizio, le ragazze francesi, fulgido esempio della valenza del tutto il mondo è paese, laddove il mondo non riesca ad aprirsi alla condivisione dei destini e delle storie degli altri.
Di questa babele di silenti disperazioni, Amelio si fa reporter mai rassegnato. La macchina da presa si tiene sempre pudicamente a distanza dalle brutture delle vite dei protagonisti, piuttosto, come detto, soffermandosi su quelle degli ambienti e dei personaggi secondari, le cui esistenze, pare dire il regista, sono l’esempio di come potrebbero diventare quelle di Rosetta, Luciano e Antonio, se non riuscissero a scoprire quanta bellezza può esserci nell’amore tout court.
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