Regia di Tomas Alfredson vedi scheda film
Straordinario e intenso, il film è una sconvolgente, emozionante, appassionata, impossibile e tragica storia d’amore che, nella sua circolarità, fa ben comprendere la sofferta, dolorosa definizione di una “storia” - di questa storia - che il regista ci ha raccontato da par suo cavalcando il genere horror per farne davvero un’altra cosa.
Straordinario e intenso questo piccolo grande film svedese che ci consente di fare la conoscenza con un interessante regista come Tomas Alfredson e con due altrettanto eccellenti interpreti (i giovanissimi Kåre Hedebrant e Lina Leandersson) che rendono già attraverso la loro impronta, la loro “fisicità” così aderente ai ruoli, memorabile la pellicola, proprio per come viene rappresentata anche visivamente. “Lasciami entrare” potrebbe meglio di ogni altra cosa essere “raccontato” come una sconvolgente, emozionante, appassionata, impossibile e tragica storia d’amore che, nella sua circolarità già fa comprendere la sofferta, inevitabile e “dolorosa” definzione di una “storia” - di quella storia - che noi abbiamo potuto osservare, sia pure da una differnte prospettiva e quando il “disegno” era ancora incerto, proprio nella prima parte dell’opera. Un epilogo che si ripeterà inevitabilmente analogo e conforme (potremmo scommetterci) molto, molto dopo quella fuga in treno persino “positivista” che conclude il percorso sullo schermo, perchè quello e non altri, è l’unico, possibile approdo (e non potrà allora essere immaginata diversa in prospettiva la sorte e il destino di un Oskar ormai diventato canuto rispetto a ciò che abbiamo già “visionato”, ancora e sempre servo devoto e fedele accanto alla sua Eli, “congelata” per l’eternità nel corpo androgino di una dodicenne senza sesso certo) nonostante (o proprio per questo) l’appassionato trasporto che li attrae e unisce, più forte della paura e del pregiudizio, e capace per tale peculiarità, di sfidare persino i tabù più estremi e inaccettabili, come la morte e la disintegrazione anche fisica (ma la disponibilità a “darsi” fino in fondo a qualunque costo, è reciprocamente ricambiata in questa circostanza e quello e non altri è poi lo struggente messaggio che ci arriva addosso: un legame così profondo e tenace da superare ogni limite ed ogni barriera). Non è pauroso nel senso stretto del termine (anche se per certi versi “terrorizza” ancora di più proprio per questo) il film: lo definirei semmai più propriamente inquietante, o meglio ancora, fortemente ansiogeno, questo sì, e non solo per le atmosfere cupe e opprimenti che lo pervadono tutto, ma proprio per il “senso”, per quel che ci arriva dentro di così lacerante da stimolare un profondo e persistente senso di angoscia crescente. A mio avviso però farlo rientrare a pieno titolo e prioritariamente nel filone a cui lo destinerebbe la tematica narrata, rappresentrebbe una unaccettabile limitazione che svilirebbe la prospettiva generale dell’opera stessa, perchè il film di Alfredson non è assolutamente classificabile semplicemente e troppo sbrugativamente come pellicola horror tout court: dentro c’è motlo di più. Ci sono le tensioni spesso così spasmodiche, quasi “elettriche” da sembrare a tratti difficili da fronteggiare e sopportare; c’è quel senso di sconquassamento un pò spaesato che ti assale sovente e che a volte diventa più destabilizazzante di ogni altra percezione anche “sensoriale” perchè ti si insinua dentro quasi impercettiblmente per espandersi poi lentamente e farti entrare pian piano in fibrillazione. Se qualcuno si aspettasse scene “estremizzate” proprio in virtù di ciò che ho appena esposto, se immaginasse di trovarci “truculenze” e modalità di rappresentazione in grado di farlo sobbalzare sulla poltrona secondo i classici, abusati canoni del genere, si sbaglierebbe di grosso, perchè per altro non è poi a questo che mira il regista nè è l’obiettivo finale dell’operazione. Qui tutto è realisticamente filtrato e ”lontano”, normalizzato anche nella efferatezza più estrema mai esisbità e ”gratuita” (anche se ovviamente i momenti topici, le scene forti, persino “raccapriccianti” non mancano sicuramente, ma senza sottolineature sonore, scarti improvvisi di macchina o trucchetti di vario genere che suppliscono a volte alla mancanza di idee e di talento). Certo... parlando di vampiri sono persino rispettati alcuni schemi obbligati (si potrebbe addirittura immaginare in Dracula di Stoker, uno dei capostipiti inarrivabili di questo segmento della paura, la genesi dell’opera qui magnificamente aggiornata ai tempi nostri: Oskar e il suo predecessore = un Renfield ante-litteram? Sicuramente i paralleli ci sono, evidenti e concreti, assolutamente non casuali) ma tutto risulta concreto e possibile (la crudeltà dell’esistenza e delle sue leggi ) quasi quotidiano, e lo splatter e il granguignolesco sono banditi insieme agli effettacci dozzinali che in genere inquinano queste pellicole (spesso persino gratuiti fatti solo con l’intento di sbalordire fregandosene persino della logicità e dei nessi con il progredire della storia) che sempre turbano e disturbano , omologano e rendono scontato (dal basso) gran parte del panorama (anche abbastanza osannato come il recente The Orphanage) del genere - di “questo genere” - mai tanto imbastardito come negli ultimi anni. Se vogliamo definirlo horror allora, facciamolo pure.. o meglio lasciamoglielo fare alla distribuzione alla ricerca di un (im)possibile facile successo di cassetta che credo irraggiungibile con una pellicola così raffinata e densa, visti i tempi e le predilezioni delle masse. Ioio credo e confermo però che sarebbe fortemente improprio e addirittura riduttivo. Una storia d’amore, dunque come già accennato, ma anche una storia di diversità incomprese, un racconto di accettazione, un percorso adolescenziale di formazione e di scoperta della sessualità, una vicenda di sopraffazioni e soprusi violenti, ma anche di inconsuete sublimi dedizioni che sfidano le leggi della natura stessa, una storia di solitudini e di incomunicabilità persino straziante piena di pulsioni che evidenziano raconcorose voglie di rivalse coltivate in segreto; una raprpesentazione di ideali smarirti e di occasioni perdute, di mancanza di affetti, di rabbie inespresse, di “incomunicabilità” e di fame di affetto e di “amore” (...non solo di sangue) capace persino di ribaltare la prospettiva del “mostro”, o per lo meno di cio che si intende come tale. Un “quadro” insomma, esemplare ed esplicito che riflette proprio ciò che è adesso (è diventata) la società che ci circonda, qui proiettata a ritroso in un gelido inverno svedese dei primi anni anni ottanta (un’epoca che potremmo indicare come quella della fine delle utopie) dentro l’architettura geometrica ancora più glaciale e ostile, di un quartiere urbano inospitale e senza “speranza” (persino quelle ideologiche sembrano essere state ormai abbandonate da tempo, mortificate dalla crudeltà delle vita ormai così stretta fra indifferenza, alcoolismo e bullismo di riporto) , la desolata periferia di Stoccolma, invisibilmente inumana. Una spiazzante similitudine del gelo che attanaglia i nostri cuori e che il film riesce a farci percepire persino fisicamente, quasi sensorialmente, grazie a una ambientazione e una fotografia capaci di restituirci intatto il freddo persistente non solo esteriore, di un’isolata desolazione nevosa. Il film si presta indubitabilmente a molteplici piani di lettura, anche sociologici (potrei azzardare persino a dire “politici”) e li rappresenta rendendo palpabili tutte le cupe incertezze dei nostri tempi. La storia è semplice e lineare, ma preferisco non farvi cenno per non guastare l’originalità travolgente di una visione che a mio avviso più è “inconsapevole” e meglio si presta a far “cogliere” le tante perle disseminate nel suo percorso, le assonanze e i riferimenti, il rapporto quasi magico che si crea qui con la diversità sofferta e non conciliabile, di chi “è costretto ad uccidere per poter continuare a vivere”, si confronta con le pulsioni di una adolescenza senza fine e senza sesso (inteso come organo riproduttivo omologato nelle due classiche definizioni di maschile e femminile), perché il rapporto elettivo fra anime affini è sempre inscindibile, ineluttabile e ineludibile: sono molecole che si cercano, si attraggono, si compenetrano, non possono fare a meno l’una dell’altra, si ritrovano nel momento estremo del bisogno (ed è così che accade anche qui, nello straordinario “nitore” della scena più truce della quale percepiamo semplicemente – ed è coraggiosa maestria di una scelta indubitabilmente controcorrente – il riverbero filtrato e attutito che l’acqua della piscina rende persino silenzioso). Nessun romanticismo di riporto però (la sceneggiatura, ambigua ed affascinante, è opera dello stesso “audace” autore del romanzo di cui è esemplare trasposizione in immagini), nessun ammiccamento: l’opera è rigorosa e originale, quasi disturbante, malinconica ed avvolgente. Chissà cosa rimarrà di tutto questo se davvero gli americani che già meditano di “rifarlo” interpretandolo a modo loro, passeranno dall’ipotesi della progettualità alla ruvida certezza della realizzazione pratica. Ve lo immaginate il regista di Cloverfield alle prese con simili “sottigliezze” così misteriose e sfuggenti?. Il disastro è praticamente annunciato.
L'anima stessa del film
Straordinario
Impeccabile.
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