Regia di Aleksej Balabanov vedi scheda film
Sottotitolo ideale di Cargo 200 di Aleksej Balabanov potrebbe essere la notte brava dell’Unione Sovietica. Perché in una notte i destini di Artem, professore di ateismo scientifico, di Aleksej, dei giovanissimi Valera e Angelika e del capitano Zhurov si intrecciano ritraendo una fotografia spietata dell’era pre Gorbaciov. Siamo nel 1984 e dalle immagini televisive capiamo che il decrepito Cernenko è il segretario del Pcus. Discussioni filosofiche scandite da fiumi di vodka, l’oppio dei popoli russi fanno da teatro alla primissima parte, quando Artem a causa della Trabant in panne si ferma in un casolare abitato da generosi abitanti del popolo ma che di lì a poco interpreteranno la fine di un’era.
Sullo sfondo le conseguenze della fallimentare invasione dell’Afghanistan (citata nel titolo), “Cargo 200” è opera ritratto di un Paese marcio, a partire dai suoi piccoli rappresentanti (il cinico e mostruoso Zhurov in testa) fino alle nuove leve insensibili e proiettate verso il dio denaro facile, altro che ideologie. Le canzoni pop degli autoctoni Ariel (In the land of magnolias) e Kino (We have time, but no money) fanno da contrappunto descrittivo grottesco di alcune scene.
Artem, sconvolto dagli avvenimenti del quale è stato solo lambito si rifugerà in una chiesa, alla ricerca di un rito, il sacramento del battesimo. Aleksej che sogna La città del sole di Tommaso Campanella morirà vittima e vendetta di un sistema. La moglie lo vendicherà ma senza un briciolo di umanità per la scioccata e smarrita Angelika. Valera con maglietta iconica un figlio futuro del riformismo consumistico, di necessità bisogna fare virtù. La madre di Zhurov è l’emblema di un popolo inebetito dall’alcol (costante compagno di vita di chiunque) e da un mondo finto trasmesso da un maxi televisore dal tubo catodico a cielo aperto, metafora di una nazione dagli scheletri non più chiusi in un armadio. Paesaggi industriali grigi e inospitali. Interni domestici dimessi e logori. Del popolo spogliato di ogni ideale, saturato e violentato, non resta che un putrido cadavere con tante mosche attorno.
Ottima prova di Balabanov, autore russo ossessionato dal racconto della fine, da riscoprire ora che non c’è più.
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