Regia di Francesco Munzi vedi scheda film
Sguardo convenzionale di una storia ovvia. Situazioni mediate da una rapida scorsa all’archivio di cronaca nera di un qualsiasi quotidiano italiano, filtrate da un occhio che vorrebbe essere distaccato e freddo ma che si risolve nel dare un colpo al cerchio e uno alla botte per non scadere ne’ nel padano “rimandiamoli a casa loro”, ne’ nel trito buonismo trito “del fare di tutta l’erba un fascio”. E uscirne indenne dalle fauci di Cannes trascinato dal meritatissimo successo di due opere veramente epocali come Gomorra e Il Divo. Munzi dirige con responsabile piglio televisivo il terremoto causato dallo scontro di strati sociali diversi e lontani, avvicinati dall’esigenza di sopravvivere da una parte, e dal diritto di esistere una vita il più agiata possibile dall’altra. Il buio nella mente di questa tragedia borghese non è ispirato da una spinta ideologica e reazionaria quanto dalla voglia di rivalsa e di benessere che i reietti stranieri naufraghi del capitalismo selettivo hanno come inarrivabile punto di riferimento. Tre storie parallele si dipanano per poi deragliare l’una verso l’altra e convergere in un punto di fuga senza ritorno, mentre il fatto scatenante, il presunto furto di preziosi orecchini da parte di Maria, la domestica rumena, poi licenziata dalla fragile padrona di casa isterica e timorosa, è il pretesto su cui si sorregge tutto il film. Chi sono i buoni e i cattivi? Chi deve avere paura di chi? Il malessere di una provincia grassa e agiata, definita dalla coppia di ricchi coniugi irosi, (Sandra Ceccarelli e Aurelien Recoing già alle prese con l’ambiguità borghese del bellissimo A tempo pieno, di Lauret Cantet) sospettosi e crudeli nelle loro buone maniere; contrapposta alla provincia proletaria e disperata sublimata dal tossico (Stefano Cassetti) in conflitto con l’ex moglie per la custodia del figlio. Tra questi due lontani microcosmi ognuno dei quali rinchiuso all’interno di sé stesso, che siano muri e telecamere o impossibilità di essere normali, filtra il collante che ne cementa i destini, della provincia clandestina, quella degli invisibili che vivono di espedienti e piccoli reati. Maria e Ionut, immigrati rumeni. Il resto della notte è un film calato pesantemente nell’italianità del tema ma non prende posizione alcuna, si nutre della spinta popolare della cronaca recente in tema di immigrati e violenza per spalmare una retorica un po’ trita e guadagnare consensi. Cercando di spiegare l’origine del male, le cause che portano ad una esondazione di violenza, in parte ne giustifica le motivazioni e la morte diventa così risultato della legge del contrappasso per i peccatori. Una lettura morale che nulla ha che vedere con la banalità del male che raggela la quotidianità di una società bersaglio immobile delle proprie paure. Muore il borghese padre di famiglia, fedifrago. Muore il tossico, liberando suo figlio della sua distruttiva violenza. Muore Ionut, il rumeno ladro con scrupoli e una riabilitante voglia di normalità, liberando Maria, la causa di tutto il disastro. Ed è pronta a legarsi a chicchessia pur di sfruttarne le possibilità. Muore il fidanzatino della figlia adolescente, colpevole solo di essere lì e di averla concupita.
Sguardo superficiale e ipocrita, quello di Munzi, che stravolge l’obiettività in favore di una rappresentazione ruffiana che rifugge l’ambiguità e il sottotesto cedendo al palesare degli eventi, accumulati l’uno sull’altro a formare un’impalcatura di colpa che dovrà necessariamente trovare uno sfogo nell’espiazione. In questo modo gli attori perdono spessore diventando ritagli di giornale monodimensionali, ritratti con le scarne righe di descrizione di un qualsiasi cronista dilettante. Il film solo apparentemente asciutto, rivela invece inquietanti indizi di bulimia descrittiva facendo dello spettatore il giudice-complice della retorica pleonastica che esibisce. Ebbene si, gli orecchini li aveva rubati proprio Maria. Alla fine la signora Silvana, la ricca signora in crisi di panico, aveva ragione.
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