Regia di Vittorio De Sica vedi scheda film
Con Ladri di Biciclette - e con La Terra Trema dello stesso anno, il 1948 - si chiude la felice parentesi del neorealismo puro. Anche se un neorealismo puro non c’è mai stato, se non sulla carta dei teorici, Cesare Zavattini su tutti. Il cinema è sintesi, riduzione di un racconto emotivo, per tanto non può registrare e riprodurre la realtà così com’è e come accade sotto i nostri occhi. O almeno può farlo nelle forme più estreme di sperimentazione, di avanguardia e di documentarismo. I caratteri fondamentali del neorealismo sono innanzitutto la riduzione dell’intreccio drammatico, la pressocché supremazia degli esterni sugli interni, gli attori presi dalla strada, la macchina a mano per pedinarli zavattinianamente, il contenuto proletario e non più borghese né aristocratico, inusuali tempi morti, la valorizzazione del gesto minimo e delle piccolezze insignificanti della quotidianità. Ma nonostante questi punti, o meglio spunti, pseudo-programmatici, sullo schermo non vedremo mai neoralismi puri, ma solo spuri. Ladri di Biciclette nè è un esempio lampante. Tra i più puri tra i film neorealisti, ha anch’esso i suoi discostamenti dal dogma zavattiniano - e tra l’altro Zavattini è autore insieme a De Sica dello stesso film. L’intreccio, nonostante non sia lo stesso amoroso-sentimentale dal tono noir e maledetto di Ossessione, c’è ugualmente. É però un intreccio preciso. É una deambulazione. È un vagabondare. È quindi un piccolo viaggio. C’è una partenza e un arrivo, e tra i due poli c’è un tragitto, un percorso con i suoi imprevisti, i suoi incontri, le sue facce, le sue pause. C’è una sceneggiatura, quindi, molto cinematografica perchè non ci stancheremo mai di ripetere che il tema e la struttura del viaggio sono connaturati ad ogni forma narrativa. La narrazione è essa stessa un viaggio con i suoi schemi, i suoi luoghi letterari e le sue modulazioni narrative. E la narrazione è un artificio, e non una registrazione-riproduzione della realtà, bensì la sua rappresentazione. Ed è nel tono e nello stile e negli espedienti con cui rappresentare questa realtà che stanno le differenze e le cifre del neorealismo piuttosto che di altro. É il taglio proletario, è il dialetto, è la poverta con i suoi piccoli gesti quotidiani, sono gli attori non professionisti e la macchina da presa ad altezza “etica” d’uomo che fanno Ladri di Biciclette una delle vette del neorealismo italiano famosa in tutto il mondo. Lamberto Maggiorani è l’attore protagonista, che nei sui film successivi sarà solo caratterista di lusso, ma nel film di De Sica interpreta il suo Antonio Ricci con un’istintività, una freschezza e una sincerità del gesto che tutti i metodi e scuole di questo mondo non possono eguagliare. E questa non è la retorica del cinema verità, dell’attore preso dalla strada, visto che non so da dove arrivi il Maggiorani. Quello che so è che il suo volto era già cinema prima che lo prestasse ad una pellicola, che i suoi gesti, le sue mosse, le sue posture sono sobrie, misurate sulla realtà e non sulla teatralità tipica italiana - nemmeno il Massimo Girotti di Ossessione saprà fare di meglio. Ecco che il neorealismo, come insegna il coevo La Terra Trema, non può essere puro perchè è comunque cinema, è quindi una riduzione, una rappresentazione. Ha di conseguenza una sceneggiatura, un lavoro preliminare, dei simboli, delle figurazioni e dei dialoghi - e che dialoghi stupendi in Ladri di Biciclette! - che rappresentano e riducono la realtà ad una sua percezione, seppur sensibile e plastica, che è poi il neorealismo puro. Da notare anche che come Zavattini voleva pedinare i suoi personaggi, tra cui il Ricci del Maggiorani, così lo stesso Antonio Ricci pedina il vecchio barbone, pedina il ladro della sua bicicletta, pedina nel senso che cerca, fruga e spia le biciclette rubate e quelle possibilmente da rubare. Una mise en abyme metadiscorsiva e metacinematografica che ad anni dalla concezione del neorealismo - nel ’43 con Umberto Barbaro - sembra svelare il processo creativo neorealista al pubblico e coinvolgerlo nella fase teorica e intellettuale per dargli una consapevolezza civile e artistica. Pubblico che da Senso e La Strada in poi inizierà a preferire le storie leggere o pseudo-tali del neorealismo rosa dove si celebra il passaggio dal neorealismo al realismo, ovvero il passaggio dalla registrazione della realtà alla sua narrativizzazione, come intuì Guido Aristarco su “Cinema”, rivista dell’epoca.
Inoltre in Ladri di Biciclette, complice la missione stessa del film che è narrazione, gli stessi moduli scelti dalla coppia Zavattini-De Sica hanno la loro importanza figurativa e simbolica. Nei vari moduli ritroviamo mimetizzata nella messa in scena e nel discorso ultimo dei significanti: la denuncia all’immobilità della giustizia (Ricci al commissariato), all’ipocrisia della Chiesa (durante la messa dei poveri), alla piccolezza dell’italiano mafio-massone e consortiere (l’omertà dei popolani del quartiere del ladro), alla credulità popolare (la santona), all’ingiustizia sociale (Ricci preso come un ladro). All’inizio del film invece, come ogni film vuole, c’è la preparazione dei personaggi, del terreno sociale e delle aspettative del pubblico. Ed è qui che si può evincere il taglio puramente norealista: la gente, il popolo, la ricerca di un lavoro quasi sempre umile, la lingua dialettale, l’habitat popolare e proletario e il fulcro della narrazione che è sia fulcro diegetico che etico: la bicicletta senza cui non si può lavorare. Dopo di che il film, pur rispettando il tono neorealista più che l’estetica pura che non può esistere praticamente ma solo in teoria, è modulato sul viaggio come ogni narrazione. Nessuno può scappare, fortunatamente, da questo vincolo. La narrazione stessa è un viaggio. I tre atti canonici di un testo narrativo - letterario che filmico - sono il prologo, lo sviluppo e l’epilogo. Sono un percorso, la parabola, il viaggio di un tema, di un personaggio, di un oggetto, di un motivo. E la modulazione di Ladri di Biciclette è quella di un viaggio con le sue tappe, le sue stazioni, le sue pause e i suoi silenzi che sono un altro aspetto inedito del neorealismo. Su tutte le scene vanno ricordate l’intrusione nella casa chiusa e il pranzo all’osteria. Nella mitologia del viaggio sono proprio due fasi cardine del percorso: l’incontro con la mezzana, la donna che concede il sesso in nome di vecchie pratiche nomadi, e il pranzo ristoratore durante o dopo le fatiche. Entrambi servono ad accumunare i viaggiatori - sesso e cibo come intimità -, così come servono ad accumunare il viaggiatore con l’ospite straniero.
La parabola del neorealismo è quindi spinta sia da un’adesione ad un canone implicito, mai davvero teorizzato e programmato in manifesto, che dalla sensibilità dell’autore che firma con la sua personalità l’intera opera. Differenziandola.
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