Regia di Vittorio De Sica vedi scheda film
La sterminata letteratura critica, per voler tacere degli articoli sparsi e dibattiti televisivi attorno a Ladri di Biciclette di Vittorio De Sica (1948), dovrebbero far desistere dal parlarne, chiunque non abbia una quintalata di titoli di studio accademici sul cinema e approfonditi studi di estetica.
Un’opera su cui tutto è stato detto, inquadratura per inquadratura, cosa si potrebbe aggiungere? Nulla, se non cosa resta a distanza di oltre 70 anni dalla sua uscita, per la quale Vittorio De Sica dovette lottare per reperire i fondi, nonostante il successo critico di Sciuscià (1946), coronato dall’oscar come miglior film straniero.
A dirla tutta, i produttori americani erano interessati all’opera, tanto da voler investire loro stessi nel film, a patto di avere come protagonista un attore dal richiamo internazionale come Cary Grant.
L’occasione era ghiottissima e commercialmente appetibile, ma optare per tale attore, avrebbe distrutto le premesse teoriche alla base dell’opera, trasformandola in un ragguardevole film di denuncia sociale, la cui forza si sarebbe esaurita nel giro di qualche anno, tradendo le premesse del “nuovo realismo”, che il cineasta assieme allo scrittore Cesare Zavattini (la mente teorica di tutto il movimento), voleva porre in essere.
“Ladri di biciclette è uno dei primi esempi di cinema puro. Niente più attori, niente più storia, niente più messa in scena, cioè finalmente nell'illusione estetica perfetta della realtà: niente più cinema.” (Andre Bazin).
Il grandissimo super-critico francese, all’epoca colse l’effettiva rivoluzione, di cui l’opera si faceva portatrice, andando oltre i meri quanto sterili dibattiti sul contenuto civile e l’efficacia della denuncia.
Rispetto alle coeve opere di Roberto Rossellini, Ladri di Biciclette, presenta un andamento narrativo più focalizzato, sul focus “morale”, che muove il protagonista Antonio Ricci (Lamberto Maggiorani) nella disperata impresa, di trovare la sua bicicletta rubata, in mezzo alle decine di migliaia, che ogni giorno circolano per Roma. Siamo ben al di là del boom economico, che prenderà piede da metà anni 50’, automobili e motociclette, sono mezzi molto lontani dall’entrare nella vita quotidiana della maggioranza degli individui.
La bicicletta, in alternativa ai mezzi pubblici, rimane il mezzo di trasporto privato per eccellenza, nonché strumento di lavoro necessario al protagonista, nello svolgere il lavoro di attacchino di manifesti.
De Sica, ha sempre avuto una vena sentimentale nel tratteggiare i suoi personaggi, il cui stato d’animo, sembra influenzare l’atmosfera che li circonda.
L’andare a lavoro in bicicletta, ottenendo finalmente un sospirato impiego ben remunerato, conferisce alle prime luci mattutine, un’intensità maggiore, come l’energia di felicità che pervade Antonio Ricci. Sentimento opposto di cupa disperazione, la sera, quando dopo il furto del proprio mezzo di trasporto, trasforma il tramonto inoltrato, in una notte senza fine.
La città di Roma, assieme ad Antonio e suo figlio Bruno (Enzo Staiola) - quest’ultimo vero e proprio transfert emotivo del sentimenti del padre -, assurge a terza protagonista.
Una fiumana di persone, composta da una molteplice varietà di classi sociali, che si muovo all’ombra dei grandi monumenti e lungo le grandi arterie urbane, inquadrate dalla macchina da presa, che amplifica il senso di smarrimento, turbamento e soprattutto solitudine presente in Antonio, alla ricerca disperata della sua bicicletta.
L’uomo si guarda continuamente attorno, muovendosi con passo affannato, barcamenandosi in mezzo ad una gente presa dalla vita quotidiana, da essere totalmente sorda al suo dolore interiore.
Tranne l’aiuto dato dai netturbini, ciò che si percepisce dalle inquadrature di De Sica, è una società disumanizzatasi nel giro di appena 3 anni dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. Il popolo italiano si è lanciato verso una modernità incerta, ma attaccata fermamente a “tradizioni popolane”, come la “santona”, i cui responsi (per i quali riceve lauti guadagni), si basano sulla disperazione quotidiana della gente di ogni età, tipo e classe sociale – troviamo perfino un maresciallo!-.
Ma quando uno le ha provate tutte, l’irrazionale assurdità diventa unico approdo possibile, salvo ricevere una risposta dal sapore di presa in giro – “o si trova subito o non si trova”, tutto e niente -, ma tali truffe di sedicenti figure dai poteri paranormali, proseguono ancora dal 1948 ad oggi, perché innanzi all’abisso del nulla, qualunque cosa, pure una truffa conclamata, serve per non crollare psicologicamente.
Superstizione popolare e religione, perché De Sica accomuna le due cose in una visione laica nello sguardo -, prosperano su una massa di povera gente, che non riceve aiuto dalle istituzioni statali preposte; anzi, loro stesse constatano l’inutilità della denuncia, perché il furto di una bicicletta è ben poca cosa innanzi ad altri reati ben più gravi ed in carenza di personale, ci sono altre priorità da seguire.
Criminalità, connivenza, malaffare ed indifferenza sono il nuovo realismo portato alla luce da De Sica, a cui però fa da contraltare “positivo”, il lato sentimentale, che se qui risulta essere un contrappunto, che mira a ritrarre la vita quotidiana, secondo il rigore dell’equilibrio, successivamente, tale elemento prenderà sempre più piede nelle produzioni da metà anni 50’, in cui il cinema del regista, andrà sempre più verso una commercializzazione nazional-popolare, fatta sempre con dovuta diligenza e perizia tecnica, ma perdendo inesorabilmente in forza spontanea e ricerca artistica.
Pregno di calore umano, delicato, disperato e sentimentale, Ladri di Biciclette rilegge la realtà al cinema per ciò che è, lasciando spazio ad un finale incerto nell’avvenire, dove un padre ed un figlio, immersi nella folla uscita dallo stadio, avanzano verso un orizzonte indecifrabile.
Film aggiunto alla playlist dei capolavori: //www.filmtv.it/playlist/703149/capolavori-di-una-vita-al-cinema-tracce-per-una-cineteca-for/#rfr:user-96297
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