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Il mondo di Horten

Regia di Bent Hamer vedi scheda film

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La recensione su Il mondo di Horten

di logos
8 stelle

Odd Horten giunge ormai al suo ultimo giorno lavorativo come macchinista ferroviere all’età di 67 anni. Tutta la sua vita è stata spesa nella sua occupazione, viaggiando sul suo treno da Oslo-Bergen, scorgendo il mondo scorrere da una certa distanza, cioè soltanto dal finestrino della sua cabina di pilotaggio, per quasi quarant'anni.

A poco serve l’augurio alla pensione da parte dei colleghi, che all’unisono fanno il ciuf-ciuf con la gesticolazione delle braccia, perché il suo cuore è comunque legato alla sua vita di macchinista, scandita secondo una routine inalterabile, espressa bene dal suo sguardo assorto, il contegno serio e silenzioso, confermato dalla sua pipa che continuamente tiene tra le mani, la accende e la gusta sotto i suoi baffi.

Nella sua solitudine, ha solo il legame con sua madre, oramai ricoverata nella casa di riposo, colpita in una demenza sensile che non le consente di parlare e forse neanche di riconoscerlo. Oltre alla madre che, per ragioni dettate dal coniuge, non riuscì mai a realizzare il suo sogno di saltatrice di sci, Horten incontra la signora Svea, una donna gentile e vitale, che lo accoglie nelle pause tra un viaggio e l’altro.

Prima di concludere il suo ultimo viaggio, il nostro personaggio si ritrova con i colleghi per una festa di addio. Belle le immagini in cui il gruppo, oltre all’imitazione del ciuf-ciuf, gioca a indovinare i diversi treni dal solo rumore registrato in un nastro. Dopodiché decidono di recarsi nell’appartamento di un collega, ma Horten, dopo essersi allontanato un attimo per acquistare il tabacco per la sua pipa, compagna fedele, non ha modo di entrare nell’appartamento dove si trova il suo gruppo, per via dell’ingresso malfunzionante del condominio, e per la prima volta decide di fare un atto a lui inconsueto, cioè di raggiungere l’appartamento salendo le impalcature che cingono il palazzo, ma che terminano proprio al piano di sotto. E così si ritrova in un altro appartamento, con la compagnia di un bambino, che lo vuole con sé prima che si addormenti. Nell’attesa, anche Horten finisce per addormentarsi, e così al primo atto inconsueto ne segue un altro, quello di doversene andare via di soppiatto da un appartamento estraneo con la complicità del bimbo, e, di conseguenza, di non essere puntuale per l’ultimo viaggio come macchinista.

 

Proprio da qui inizia per Horten un’altra fase della vita; dovrà fare i conti con il mondo che ha sempre visto da una certa distanza, e in questo viaggio, anche di formazione esistenziale, dovrà ritrovare la parte nascosta di sé, che guarda caso si temporalizza soprattutto durante la notte. Perché è nella notte che la città gli apre i suoi segreti e Horten si apre alla città in un modo inedito, rivedendola con altri occhi, stupefatti e meravigliati, come un vero e proprio ritorno alla vita, ma sempre con animo nostalgico rivolto al suo passato. In questa ambivalenza, Horten esprime bene la peculiarità dell’esistenza, che è un andare avanti, un progettarsi, ma sempre a partire da una provenienza, tra fatticità e possibilità. Perciò l’esistenza di Horten, d’ora in poi, si fa anche simbolica, onirica e fiabesca, oltre che reale, proprio per rimarcare, nell’opera di regia, la stessa l’invisibilità dell’esistenza, che non è solo fatta di presenza corporea, ma anche di attese, emozioni, ripensamenti, azzardi e nostalgie.

 

Proprio per questo il viaggio di Horten diventa anche metaforico, come sono metafore gli ambienti e i personaggi che incontra durante la notte, dove ha modo di immergersi in una piscina e assistere all’amore segreto di due donne, di incontrare in una tabaccheria la vedova del suo fornitore di fiducia di tabacco e di pipe, mentre un anziano entra ed esce dal negozio perché si dimentica di aver comprato i fiammiferi. Ma poi incontra sdraiato sul marciapiede anche un ex diplomatico/inventore, saggio e schizofrenico, che lo invita a casa propria, gli fa sorseggiare un buon whisky, e gli confida che sa ancora guidare la macchina ad occhi chiusi, e che bisogna farlo, perchè il tempo non aspetta, e le decisioni vanno prese prima che sia troppo tardi. E così l’opera va con scene ironiche e surreali, ma tutte che convergono a esaltare, in modo aggraziato e profondo, l’esistenza di Horten, che non sa se compiere il salto nel mondo o se restare sospeso, tra il mondo di eri e quello che gli si apre. Alla fine decide per la svolta, ma dovrà compiere quel salto con gli sci che sua madre non aveva potuto realizzare. E’ un salto mica da ridere, per un inesperto, ma egli prova comunque, e chissà dove lo porterà, se di nuovo nel mondo o verso altri lidi. Fatto sta che lo vediamo poco dopo ritornare dalla sua cara amica Svea, ma questo ritorno è quasi  l’eco di una trascendenza istantanea, svanita nel tempo, di un’esistenza che, comunque siano andate le cose, ha deciso per un salto, sopra il suo abisso, nella propria libertà.

Sceneggiatura e regia veramente apprezzabili, soprattutto per la leggerezza attraverso la quale vengono marcati i passaggi esistenziali del protagonista, con riprese aderenti, asciutte, ma che sanno anche mantenere all'interno di questa aderenza svolgimenti onirici e fantasmatici: si veda come esempio la scena della lastra di ghiaccio sulle strade, dove una moto scivola in un modo surreale mente un signore distinto utilizza il suo cappotto come slitta e va comodamente a sua destinazione; ma anche la figura del saggio folle inventore ex-diplomatico, la proiezione della sua identità su suo fratello che ritiene defunto, con tutto il gioco pirandelliano che ne consegue.

Bent Hamer è un grande maestro di intimismo che aiuta a riflettere sull’esistenza e sul senso del Sé, sulla solitudine inviolabile dei derelitti, degli ultimi, ma anche sui concetti che, se analizzati, svaniscono in innumerevoli ossessioni, come sembra promettere il suo nuovo film 1001 grams.

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