Regia di Sergei Dvortsevoy vedi scheda film
Questo film ha il pregio di evitare l'omologazione estetica di tanto "cinema da festival" (trappola manierista, in cui era caduto 10 anni fa il film kurdo-armeno Vodka Lemon) e di insistere con coraggio, intensità, vigore nella radicale scelta stilistica del piano-sequenza. Ce ne saranno una dozzina in questo film, alcuni straordinariamente ipnotici, come quello centrale (Asa tenta prima di convincere i genitori di Tulpan a concedergli in sposa la figlia; poi l'azione si sposta fuori e Asa tenta di comunicare con la stessa Tulpan, fantasma di indifferenza, attraverso la fessura di una porta: una sequenza magistrale, dolce e straziante, alla quale fa eco la crudezza del parto di una capra, estenuante prova di maturità per un giovane "bamboccione": due momenti che danno il senso, formale e contenutistico, all'intera pellicola). D'altra parte, il piano-sequenza si rivela scelta obbligata, in un certo senso, per il regista: il fatto che la steppa, nella sua "infinitezza", non dia punti di riferimento se non il vuoto assoluto, avrebbe reso sterile l'utilizzo del classico, discreto, limitante, campo-controcampo. Gli insistiti piani-sequenza di Tulpan ci immergono a 360 gradi nella brulla ed ostile natura kazaka, facendoci percepire il movimento di uomini, donne, ragazzi, bambini, trattori e bestie in una dimensione le cui coordinate spazio-temporali paiono in perenne definizione. Contribuisce a questo effetto la colonna sonora, composta da gemiti, latrati, bufere, canti popolari e hit radiofoniche. Nel descrivere il tumulto e gli affanni della vita nomade, Dvortsevoy riesce abilmente a coniugare verismo d'ambiente, puntiglio psico-emozionale e trasfigurazione estetica, riallacciandosi, in egual misura, alle diverse lezioni di Flaherty, Kiarostami e Bela Tarr.
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