Regia di Leos Carax, Joon-ho Bong, Michel Gondry vedi scheda film
Il tema dei tre mediometraggi che costituiscono Tokyo! È il rapporto dell’individuo col mondo, e in particolare con gli altri esseri umani. In tre registri differenti fra loro quanto lo sono i tre autori, si mette in scena il momento massimo di tensione del protagonista, costretto a fare i conti con le proprie debolezze (qui piuttosto patologiche) e a cambiare il proprio modo di relazionarsi con l’esterno. Il primo episodio è di Gondry. Io non amo Gondry, trovo che il suo sia cinema intellettualistico che diffonde la sua ragionata fantasia attraverso un meccanismo ricattatorio: ma guarda che matto che sono, guarda che tinte pastello e che sogni fanciulleschi; se non ti piaccio solo perché il mio immaginario è futilmente cerebrale e quando voglio far ridere non ci riesco, il tuo cuore è arido come una zolla di deserto. Interior Design si inserisce bene nell’atmosfera nipponica, segue la vita squattrinata di un aspirante regista (non male il suo film nel film, con visione tossica) e della sua compagna, per poi lasciarsi andare all’immaginario di cui sopra, aprendo ad una metamorfosi gondryana che indaga i compromessi che la ragazza è disposta a sopportare per sentirsi utile e accettata. Una sterzata violenta, che avrebbe meritato un'idea meno gongolante.
Leos Carax con Merde! firma l’episodio più volutamente sgradevole, forse il più riuscito. Inventa un sociopatico partorito dalle fogne che semina panico e distruzione per le vie di Tokyo. Merde è anche il nome con cui l’uomo si fa vezzosamente chiamare, e il suo distacco disumano è accentuato da particolari disgustosi (unghie lunghe e ricurve, occhi lattiginosi) e dall’uso di una lingua verbale e gestuale non più gradevole o raffinata. L’apporto di Carax al progetto è assurdo e disturbante fin dal principio, supportato da scelte visive e narrative piuttosto radicali, ed è l’unico del trittico che di certo non cerca la poesia.
Shaking Tokyo, ultimo segmento ad opera di Bong Joon-ho, segue le vicende di un hikikomori. Si tratta di persone che si rinchiudono in casa, di solito per dedicarsi completamente alla loro vita virtuale, costruita in rete o sui videogame. Il protagonista di Shaking Tokyo è più radicale, non cerca alcun contatto con l’esterno, neanche mediato, e la sua occupazione principale sta nella percezione dello scorrere del tempo. Su questo tema, non manca qualche bel dettaglio ossessivo: spostamenti minimi degli oggetti e della luce del sole, le settimane scandite da ordinate pile di cartoni per la pizza, altro. Anche per l’hikikomori arriva il momento dell’azione, la fine delle certezze e il cambiamento. Più minimale, geometrica e sospesa, la prova coreana è quella che gioca su solitudini più solite e immagini più familiarmente alienate, ed ha quindi gioco facile nel venire incontro alle aspettative.
La media lunghezza si conferma un formato difficile da gestire.
Nel trittico, tutti gli episodi riescono a costruire idee ed immagini singolarmente interessanti, ma presentano anche una certa enfasi (ciascuno la sua) e un’indulgenza verso le proprie formule espressive, come se ogni autore si fosse preoccupato prima di tutto di rendersi marchio riconoscibile.
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