Regia di Charlie Kaufman vedi scheda film
Gente come Charles Buckowski e Louis Ferdinand Celine affermava che non si potesse scrivere d'altro che della propria esistenza. L'arte come monumento o epitaffio della vita era l'unico assioma da cui non si doveva prescindere se si voleva cogliere una parvenza di verità. Un altro scrittore, questa volta prestato al cinema anzichè alla letteratura, ribadisce lo stesso concetto. Stiamo parlando di Charlie Kaufman, sceneggiatore e ora anche regista di un film, "Synecdoche, New York", che vuole essere, al di là del contingente, rappresentato dalla storia di un autore teatrale in crisi esistenziale e lavorativa, il consuntivo di una carriera ancora in corso ma arrivata certamente a un bivio. Perchè se il punto è quello di un'arte che aspira a cogliere l'essenza delle cose e degli uomini, e che per questo è pronta a rinunciare alle lusinge di un successo succhiato dal genio di altri - come fa inizialmente Caden Cotard, portando in scena "Morte di un commesso viaggitatore" di Arthur Miller- per gettarsi nelle acque di un terreno inesplorato e nudo - che "Synecdoche, New York" rappresenta attraverso l'opera definitiva che Cotard intende scrivere prima di morire- allora non c'è altra strada che mettere in scena i fantasmi della propria esistenza. Ecco allora succedersi sullo schermo alcuni dei topos stilistici e poetici del nostro: dall'assoluto pessimismo nei confronti dei rapporti umani alla presenza di una componente personale, eloquente nella coincidenze tra l'autore e il protagonista della storia, come Kaufman scrittore e regista, e nelle discussioni intorno ai limiti dell'arte scritta, già presenti nelle nevrosi del Cage/Kaufman di "Il ladro di Orchidee". Ma non solo, perchè la frammentazione dell'io scaturita dal tentativo di fare ordine al caos del mondo che Cotard cerca di domare costringendolo all'interno di un teatro di posa che assomiglia al ventre della balena (ancora una volta un riferimento autobiografico) finisce per far esplodere il tempo e lo spazio di una vicenda che trova la sua coerenza narrativa nel fatto di essere in parte frutto delle proiezione mentali del protagonista. Come spesso accade nei film scritti da Kaufman ("Nella mente di John Malkovich" e "Se mi lasci ti cancello").
Da qui lo sfasamento temporale di un intreccio che anticipa avvenimenti poi ripresi nelle prove della rappresentazione teatrale messa in scena da Cotard, oppure il continuo gioco di specchi che ridistribuisce il medesimo ruolo ad attori diversi, arrivando ad assegnare ad una donna quello che dovrebbe essere il ruolo centrale del piece, quella del drammaturgo che non riesce a trovare la chiave di volta per mettere in scena la sua opera.
In perenne sfida con se stesso e con il mondo, Kaufman sceglie la sfida più difficile, cercando l'assoluto attraverso la creazione di un'opera omnicomprensiva. Un'utopia destinata al fallimento che "Sydecdoche, New York" lascia presagire sin dalla prima sequenza, con Cotard che fa colazione immerso in un'atmosfera resa lugubre da bollettini di morte annunciate da radio e televisione, e dai primi sintomi di una patologia, vera o presunta, che progredirà di pari passo con la stesura dell'opera; per non dire dell'ambiente che fa da sfondo alla storia, in perenne disfacimento, con muri scrostati, carta da parati strappate e ambienti ai limiti del vivibile ( come quello di Hazel, l'amante di Cotard, perennemente in fiamme) che sembrano la materializzazione di una malattia arrivata allo stato terminale. In quadro siffatto, e senza la mediazione dei registi a cui in precendenza Kaufman aveva affidato i suoi script, "Synecdoche, New York" non potrebbe essere diverso da quello che è: un'opera mastodonditica e logorroica che ha il fascino delle imprese impossibili ma al tempo stesso la mancanza di misura dell'Ego che l'ha concepita. Intepretato da un cast di star del cinema indie, "Synecdoche" per una coincidenza del caso che ha visto il film distribuito in Italia con anni di ritardo rispetto alla sua uscita americana può essere considerato il testamento d'attore di Philip Seymour Hoffman, non tanto per la qualità della performance (quella di "The Master, rimane a tutt'oggi il culmine inarrivabile) ma piuttosto per l'occupazione dello spazio scenico che in corpo di Hoffman interpreta con un disagio che sembra anticiparne la tragica fine.
(icinemaniaci.blogspot.com)
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta