Regia di Charlie Kaufman vedi scheda film
Fermati, Caden. Quella che stai vivendo non è la tua vita vera. Non ti appartiene, nemmeno adesso che sta per finire, perché tu non sei in grado di vederla. La realtà, infatti, è tutta negli occhi e nella mente degli altri. Le tue pupille non reagiscono più agli stimoli. Non si dilatano e non si restringono più come dovrebbero, passando dalla luce al buio. Sarà perché è fisso il fotogramma che sono costrette ad inquadrare, e che ritrae te, che persegui l’ordine e la ragione in mezzo ad un universo governato dall’assurdo, dall’incoerenza, dall’avventatezza, dalla precarietà. L’abbandono, il pericolo, l’ambiguità sono i componenti della sua essenza, che è pazzia distruttrice, imperscrutabile per chi ci sta in mezzo, per chi la subisce. Il rubinetto salta, e ti colpisce la fronte come un proiettile, ti ammali di un morbo che ha mille sintomi e nessun nome, tua moglie e tua figlia spariscono da un giorno all’altro, e tu ti ritrovi persino incapace di tener conto dello scorrere del tempo. Fare teatro non basta, se è sempre solo il teatro altrui quello che metti in scena. Ma è anche vero che non puoi, simultaneamente, essere autore, narratore ed interprete. In tal modo non riuscirai mai a capire la tua storia.
Questo film parla a lui, a Caden Cotard, molto prima che a noi. Lo esorta a rinunciare a dominare il suo destino, a sapere ogni cosa, a tenere tutto sotto controllo, per lasciare che qualcuno gli spieghi per bene cosa sta avvenendo. È inutile sognare e meditare, perché sono attività che si limitano a rimescolare illusioni e convinzioni sbagliate. Bisogna uscire dal cortocircuito del pensiero individuale, per osservarsi dal di fuori, attraverso i tanti specchi che proiettano la nostra immagine nel mondo. Solo allora ci scopriamo diversi, imprevedibili ed indomabili rispetto ai nostri progetti, come attori che si ribellino al regista. In un vecchio capannone sorge una nuova città, con un altro Caden, con le copie dei suoi amici. Tutto, inizialmente, dovrebbe essere fedele all’originale, ma alla fine tutto, invece, dovrà discostarsene, obbedendo alla regola della difformità come principio rivelatore. La visionarietà è la realizzazione di un possibile che spiazza, che si inserisce con audacia nel solco della verosimiglianza, ma che continua eroicamente a proclamare la sua indipendenza dalla logica, a voler cercare sicurezza in una casa in fiamme, ad essere donna anziché uomo, a imitare la realtà invertendola. L’evidenza si nasconde, si sottrae alla vista come i tesori più preziosi, ed è un bene che si deve conquistare sfidando la cecità. Adele dipinge quadri microscopici: sono ritratti di corpi nudi, di esseri senza filtri e in carne ed ossa, ed è giusto doversi sforzare per poterli mettere a fuoco. Il cosmo è polvere di verità. È un caleidoscopio che infrange, sdoppia, ricombina, producendo dal nulla inedite simmetrie. Seguirle fa girare la testa. Ma quella vertigine è un segno della nostra agonia; il viatico che ci conduce verso la fine in cui si compiono i significati, quei traslati vagabondi, quei sensi surrogati e imperfetti il cui unico scopo è quello di andare perduti strada facendo. La sineddoche è il fantasma di un’apparenza inafferrabile: è il simile ma non identico, che ci richiama alla lucidità attraverso un gioco di inganni. Il suo fantasioso legame con il concetto che l’ha generato è un segmento dell’immenso intreccio che tiene insieme il Caos; lo scambio, il pezzo che compare al posto sbagliato è l’anomalia che attira l’attenzione e che invita a risalire all’origine di ciò che si credeva scontato. Il film di Charlie Kaufman si nutre di questa allucinata fatica, di cui riproduce il respiro lento e pesante, la pulsazione fragile e disarmonica di un germoglio che si schiude morendo.
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