Regia di Jean-Pierre Dardenne, Luc Dardenne vedi scheda film
Ancora una volta i disperati, a prestare il volto per un’altra storia di emarginazione, povertà e degrado. Di quelle a cui hanno abituato il loro pubblico, i due registi, fratelli francesi, Dardenne, due volte Palma d’oro a Cannes, con Rosetta, nel 1999, e L’enfant, nel 2005, da non dimenticare, il premio per la migliore interpretazione femminile per Emilie Dequenne (Rosetta) e quello per l’interpretazione maschile per Olivier Gourmet (Il figlio, 2002).
Questa volta è il tempo di Lorna, una giovane e bella ragazza albanese, che vive in Belgio. Il suo sogno è quello di aprire un bar insieme al suo compagno, un altro albanese. Per trovare i soldi necessari, la ragazza decide di entrare in un’organizzazione criminale, specializzata nei matrimoni bianchi. Lorna deve prima sposare un tossico belga per avere la cittadinanza e poi sposarsi con un cittadino russo. Il fatto è che dopo il primo finto matrimonio, il tossico deve essere eliminato. Lorna inizia a farsi degli scrupoli di coscienza e il suo comportamento finirà per creare numerosi problemi.
Quello dei Dardenne è un cinema del respiro e dei sospiri affannosi dei personaggi. C’è erotismo nel cuore del film: la carnalità di due corpi quasi affossati l’uno nell’altro, si completano nei lenti movimenti di contro all’affanno delle palpitazioni. Ma è anche cinema che rielabora il dolore. I personaggi, ora inseguiti dalla camera, divenuta più pesante per il passaggio da super 16 millimetri a una 35, e poi quasi uniti ad essa. Questa volta tutto sembra maggiormente sincopato, per i tanti buchi neri, voluti dai registi in fase di sceneggiatura, per rendere il racconto singhiozzante e poco fluido, costringendo lo spettatore ad interpretare continuamente il significato di tanti vuoti narrativi. Ciononostante, quello che appare lampante è la crudezza della realtà, legata agli ambienti, ai personaggi e alle scene in cui tutto rimanda alla triste crisi esistenziale.
Con Il matrimonio di Lorna i Dardenne cambiano registro del loro modo di fare cinema, si tratta di nuovi percorsi linguistici che vedono i registi impegnati nella sottrazione di quanto è scritto. Tutto è scarnificato e ridotto all’osso (si pensi all’assenza di immagini che descrivono dettagliatamente la morte che cambia tutta la storia del film). Tuttavia, i due fratelli, questa volta, più che in altri lavori precedenti, si affidano alla parola e ai dialoghi. Ma in modo sempre più essenziale.
Immensa l’interpretazione del sempre più bravo attore feticcio dei Dardenne, Jeremie Renier e della dannata immigrata (Arta Dobroshi). Entrambi gli attori conservano tutte le sottigliezze umane, compresa la disperazione, che appartengono ai relitti immigrati, che ogni giorno giungono sulle nostre coste.
A raccontare il percorso, sempre più accidentato, di lei che tenta, disperata, la fuga è la stessa macchina da presa mai ferma, le lunghe inquadrature, i primi piani affannosi, dilatati attraverso i lunghi piani sequenza, specie nella seconda parte del film.
La disillusione e lo sconforto e l’accettazione di un destino al quale non ci si può sottrarre, fino alla fine, lasciano l’amaro in bocca e un vuoto nello stomaco, privandoci anche di una conclusione possibile. E’ assoluta empatia quella provocata dal cinema dei Dardenne, trattasi di figli, padri o lavoratori diseredati. Toglie la parola ed obbliga al silenzio. La stessa Lorna sarà costretta a rinchiudersi in sé stessa e a parlare con il bambino che è convinta di portare in grembo. Questa scena finale è di una bellezza ed eleganza femminile, di cui si avverte spesso la mancanza nel cinema che solitamente si produce. Lorna si fa icona della solitudine, Vergine, madonna e donna dell’attesa, la cui mano sul grembo la rende anche “odegitria”, colei che “indica la via” in un ventre materno ch’è, però, deprivato e svuotato della sua naturale presenza. Restano solo le vane carezze di Lorna. E di una società che non è ancora stanca di autocompiacersi. Nonostante tutto.
Giancarlo Visitilli
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