Regia di Wim Wenders vedi scheda film
Un fotografo di moda possiede tutto ma non ha nulla. La cosa più vicina alla vita che gli capita è fotografare Milla Jovovich incinta. Una sera scampa a un incidente d’auto. Avrebbe dovuto morire, ma è ancora vivo (o forse è morto davvero, suggerirebbe Ambrose Pierce). Presentato a Cannes in una versione più lunga andata incontro a un massacro critico che è stato più una lapidazione che altro, Palermo Shooting risorge a nuova vita con un bel po’ di minutaggio in meno (per la precisione 16’) e, crediateci o meno, non è quel disastro che la premessa avrebbe autorizzato a sospettare. Con un incipit che cita Cadaveri eccellenti, il Nosferatu di Herzog (la grande cripta dei Cappuccini) e Io ti salverò di Hitchcock (l’orologio liquido di Dalì), Wenders, almeno nella parte tedesca firma le sue riprese più interessanti da molti anni a questa parte. Sospeso tra i quadri di Edward Hopper (i bar) e certo Jean-Jacques Beineix al neon (la notte, le autostrade, le corse in macchina), il regista mette in scena la sua parabola esistenziale confermandosi ancora una volta come un devoto discepolo della Bildung tedesca (in soldoni, vocazione didattica e pedagogica dell’arte). Il film funziona molto bene nella premessa narrativa ma scivola continuamente sul terreno onirico anche se Campino (leader dei Tote Hosen, gruppo punk tedesco il cui nome significa “pantaloni morti”) insegue se stesso come Giacomo Rossi-Stuart in Operazione paura di Mario Bava, lungo scale piranesiane che ricordano i labirinti del Processo wellesiano. Da buon massimalista, Wenders non si nega nulla e nel suo film ci finisce pure la fotografa Letizia Battaglia. Tanto rock coi fiocchi, un’apparizione già leggendaria di Lou Reed e Dennis Hopper tristo mietitore armato di arco fanno di Palermo Shooting un film profondamente “sbagliato” che è impossibile non amare almeno un po’. Se poi Wenders dovesse “sbagliare” altri venti film in questo modo, allora potremmo già considerare questo già un classico del futuro.
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