Regia di Wim Wenders vedi scheda film
Non è compito facile lanciare certezze su un film simile dopo averlo visto una volta sola. Tale complessità può essere considerata una consuetudine della cinematografia di Win Wenders, sempre attento nella costruzione di personaggi complessi e impenetrabili, che spesso ostacolano il compito dello spettatore nello sfogo della sua carica empatica. Palermo Shooting è un film complesso, visionario, onirico, "brutto"; è inevitabile proporre un simile aggettivo senza le virgolette, e, per evitare di avventurarci nei rovi dei giudizi d'estetica, potremmo definirlo un "brutto d'autore". Un professore di semiotica degli audiovisivi dell'Università della Calabria ha suggerito questo genere di criterio per film simili, soffermandosi sulla frequente difficoltà dei grandi autori come Wenders di combattere contro loro stessi in storie, sfoghi emotivi e introspettivi che spezzano le loro sensazioni e percezioni. Forse è quello che è successo al regista, o quello che potrebbe essere successo se stessi parlando effettivamente di un film brutto. Ma tale non è, sinceramente. Il regista si schianta contro un rigore folle di personaggi chiusi ed esasperati. I vertiginosi panorami siciliani seguono una prima fase che, attraverso citazioni eccellenti (Hitchcook, Herzog) costruisce alcune eleganti riflessioni sul tempo, sullo spazio e gli spazi, sull'arte e sull'immagine, sulla vita e sulla morte. La questione sulla devastante accoglienza negativa che il film ha ricevuto dalla critica presuppone sbavature o ingenuità che non hanno permesso che il film funzionasse. Non si tratta del capolavoro dell'anno macchiato dell'incomprensione popolare, perchè gli eccessi di Wenders nella pellicola sono notevoli. Uno su tutti, una marcata tendenza al lirismo nei dialoghi, che invece dovrebbero sgravare quella che è la carica del film. Alcuni momenti, come le riflessioni del protagonista, il dialogo illuminante con il pastore (notare il riferimento biblico) o l'analisi davanti il quadro sotto restauro, necessitano di alcune forme e la carica del regista li rappresenta al meglio. Ma l'eccesso nelle banali inrterazioni tra i personaggi, l'eccessiva pomposità delle forme, sembrano forzare una foga poetica che il film non richiede. Ciò non fa che appesantire la trama e la resa dei personaggi, lasciando una Giovanna Mezzogiorno ingabbiata in una interpretazione incomprensibile di un personaggio poco chiaro e intrappolato nel suo limbo. Eppure il film dovrebbe girarle attorno, ma invece sembra collocarla in una posizione chiave e poi la incatena. A Cannes hanno imposto al regista di tagliare e snellire circa venti minuti di scene. Questo potrebbe suggerire il motivo del fallimento sulla maxiscena del cinema d'autore europeo.
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