Regia di Wim Wenders vedi scheda film
Il film credo sia una specie si minestrone delle ossessioni wendersiane, soltanto messe insieme in maniera un po' troppo didascalica rispetto al passato, e senza nessun particolare momento di bellezza o di grande cinema. Sicuramente non si tratta di un capolavoro, ci sono alcuni momenti un po' imbarazzanti (su tutti il dialogo finale fra il protagonista e la Morte, un Dennis Hopper pelato, con saio bianco e costantemente colpito da un fascio di luce bianca), ma a parte questo, complessivamente non me la sentirei di demolirlo o definirlo un film del tutto fallimentare.
La tematica come dicevo mi pare sia un chiodo fisso di Wenders, quello del rapporto fra immagine e realtà. Qua si parla soprattutto del digitale, come emblema del modo in cui la nostra epoca si rapporta alla realtà: la realtà cela in sè, in ogni istante, la costante presenza della morte; la fotografia è dunque "morte al lavoro", essendo l'arte di immortalare e fissare l'istante, ma il digitale consente di eludere la morte contenuta nell'attimo modificando l'immagine artificialmente, imbellettandola, allontanandola dalla realtà e riducendola ad essere pura superficie. In tal modo si esprime il terrore e l'angoscia che il protagonista prova nei confronti della realtà e del suo vuoto sostanziale ("le cose sono solo superficie"), una realtà che, essendo percepita come pura superficie, si riduce a essere un nulla essenziale. Il protagonista si ritrova dunque a fare costantemente i conti con la morte, tenta disperatamente di fuggire da essa ma al contempo di guardarla in faccia per esorcizzarla, per catturarla nell'immagine e quindi tenerla a distanza, sotto controllo, ma la Morte di per sè è irrappresentabile perchè rientra nella sfera dell'invisibile, di ciò che sta sotto la superficie, in quanto costituisce l'evento più individuale e incondivisibile dell'esistenza.
Soltanto quando egli comincerà a convincersi che esiste qualcosa sotto la superficie, qualcosa che la fotografia, l'immagine non può cogliere ("io credo solo in ciò che è invisibile, l'amore, i ricordi..." dirà la Mezzogiorno) e che quindi la realtà non è un guscio vuoto, ma soprattutto quando smetterà di fuggire la Morte, di averne paura eludendola, egli potrà finalmente guardarla in faccia, e quindi fotografarla: ma fotografare la Morte significa riuscire a vederla nei volti di tutti, in tutto ciò che vive, nella vita stessa. La via d'uscita sta dunque nel cessare di avere paura della morte per incorporarla nell'esistenza stessa, pensarla come una possibilità costante, come qualcosa che accompagni ogni singolo atto della nostra vita, e dunque come se ogni momento che si vive fosse l'ultimo, come viene detto dal pastore all'inizio del film, solo così si può ridare importanza ad ogni istante e quindi ridare spessore alla vita. Insomma si tratta di ridare profondità al reale tornando a cogliere ciò che si cela dietro la sua superficie, dunque smettendo di eludere la morte, e in questo modo ridare anche profondità all'immagine, portando l'invisibile al livello del visibile, accorpando il primo al secondo. Soltanto non avendo paura della morte incorporandola nella vita stessa si può riuscire ad amare veramente quest'ultima, e soprattutto la si può ritrovare in tutta la sua completezza, perchè se ci si concentra solo sul dettaglio si finisce per perdere di vista l'insieme, come dice di nuovo la Mezzogiorno in procinto di restaurare Il trionfo della morte, al contrario di Finn che invece si accontenta del piacere fugace, della scappatella di una sera, insomma di una visione parziale del tutto, così come si perde nel particolare dell'immagine da ritoccare.
Insomma, il film non è certo privo di spessore, visto che dentro ci si potrebbero trovare echi di Heidegger, Antonioni (Blow up), finanche al post-strutturalismo (sebbene un po' marginalmente), e soprattutto visto che il rapporto fra nichilismo, nullificazione della realtà e virtualità è un problema che riguarda molto da vicino la nostra epoca; certo, dal punto di vista cinematografico non mi pare un film particolarmente degno di nota, insomma non c'ho trovato momenti di grande cinema, a parte forse un paio di scene; inoltre mi pare che il rapporto con la città di Palermo non sia approfondito più di tanto, visto che Wenders si limita a mettere insieme una serie di quadri piuttosto belli visivamente, non proprio da cartolina, e riuscendo a restituire le suggestioni e le atmosfere della città, ma per l'appunto restando un po' in superficie. Forse il difetto principale del film è un eccessivo didascalismo, che trova il suo apice, come dicevo all'inizio, nel lungo e imbarazzante dialogo finale con la Morte, che sembra uscito da una favola buona di Natale alla Dickens. Nel complesso comunque gli do la sufficienza.---P.S.: se qualcuno fosse interessato, nel museo in cui viene eseguito il restauro del Trionfo della Morte ci lavora mia madre :P
Alcuni pezzi erano piuttosto belli, ma non chiedetemi quali perchè non ve lo saprei dire.
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