Regia di Marco Tullio Giordana vedi scheda film
Al di là della storia di Osvaldo Valenti e Luisa Ferida, star maledette del cinema mussoliniano, “depravati” ma accettati da un regime che sapeva nascondere bene la polvere sotto il tappeto, il nuovo film di Marco Tullio Giordana offre una serie di spunti per ragionare e riflettere sullo stato delle cose di ciò che una volta si chiamava Settima Arte e su ciò che, oggi, ci troviamo di fronte quotidianamente: il rapporto tra realtà e finzione. Aperto e chiuso da due magnifiche sequenze che citano e rielaborano il grande neorealismo italiano di Vittorio De Sica e Roberto Rossellini, Sanguepazzo si oppone allo sfaldamento culturale e rilancia l’ottica degli sguardi. Quello che conta, ci dice Giordana, è il punto di vista, dove ci mettiamo e come ci poniamo. La cronaca, che ha la sua simpatica importanza, può essere travisata, anche di fronte a prove regine. E la cinepresa (ora diremmo: la telecamera) è una meravigliosa e/ma pericolosissima macchina da guerra. Ne abbiamo conferma nella scena (geniale) dell’attore-regista Valenti nelle agghiaccianti celle dei partigiani arrestati dalla polizia di Koch (che seminò il panico nei giorni precedenti la Liberazione), con una Sonia Bergamasco (uno dei tre camei d’autore del film assieme a quelli di Luigi Lo Cascio e Marco Paolini) che in pochi secondi dimostra cosa voglia dire essere un’attrice, e ci aiuta a decifrare il limite di un qualunque obiettivo. Come i petali di pioggia usati come un tormentone, il cinema (ieri) e le immagini (oggi) possono aiutarci a capire e, al contempo, macchiare di sangue la neve, la nostra purezza di spettatori purtroppo non più vergini. La fatica dell’onestà intellettuale è rappresentata dalle pizze del film che Valenti gira o vorrebbe girare per storicizzare se stesso e un momento della Storia e del Mondo e che, fin dalle prime scene, intuiamo vana: inutile trascinarsele appresso, perché i fotogrammi corrono più di quanto non possa fare un uomo. E la pellicola si sviluppa più di quanto un cervello possa elaborare. Ecco perché dentro un film - e Sanguepazzo ne è un perfetto paradigma - c’è sempre qualcosa di più di ciò che l’autore stesso avrebbe osato chiedere e mostrare. A un grande Zingaretti e a un gigantesco Luigi Diberti, fanno da sponda Alessio Boni (sempre in parte col regista della Meglio gioventù) e una serie di parti minori assolutamente attrezzate, ovvero Mattia Sbragia, Paolo Bonanni, Tresy Taddei, Paola Lavini, Maurizio Donadoni.
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