Regia di Marco Tullio Giordana vedi scheda film
Allora, diciamo subito che il pallino di portare questa storia sul grande schermo Giordana lo aveva da un quarto di secolo. L’urgenza di raccontarla è quindi, prima che artistica, personale. La storia in questione è quella della coppia più nera del cinema italiano, quella formata da Osvaldo Valenti e Luisa Ferida. La scelta, probabilmente, non è casuale. A suo modo, Giordana è un regista legato al passato, le cui radici sono ben piantate nella solida tradizione del cinema sociale. Sanguepazzo è una scelta coerente. Giordana è un autore che si lascia coinvolgere, accarezzare, affascinare dalle storie che decide di raccontare. Non fa eccezione dunque questo ultimo opus, progettato a lungo e di indubbio interesse. Innanzitutto stilistico, per come riesce a creare le giuste atmosfere del periodo, illuminato da fosche luci ed immortalate con torbida energia. E poi c’è il movente dell’operazione: riscattare due figure discutibili ma vittime dell’odio, loro malgrado. Il rischio di essere tacciato di revisionismo è altissimo: ma chi conosce Giordana sa bene dove batte il cuore del nostro e per questo ha la personalità per fare i conti con le zone d’ombra che avvolgono la vicenda, e che implicano in prima persona i partigiani. Intendiamoci, non si tratta di un pamphlet alla Pansa: Giordana si limita a constatare che un errore, bando alle ciance, si fece: fucilare i due divi di regime. Che poi si voglia far passare l’eccezione per la regola è un altro discorso, e non (deve) interessa(re) lo spettatore consapevole.
Per il resto: la ricostruzione storica è accurata, specie nell’arredamento e nelle scenografie (molto raffinate), uno scrupolo quasi filologico. Non si può dire lo stesso della sceneggiatura, molto romanzata (è il limite e la forza del film) e piena di licenze interpretative, non soltanto per gli snodi narrativi ma specialmente nel disegno di alcuni personaggi: spicca la figura di Goffredo Golfieri (un incisivo Alessio Boni), regista aristocratico omosessuale e partigiano vagamente ispirato a Luchino Visconti (ma molto vagamente – quasi per un beffardo gioco del destino è lui a dover uccidere i due attori, proprio lui che aveva messo in discussione le proprie tendenze sessuali per il sentimento nei confronti della Ferida), ma non è da sottovalutare il Cardi del finissimo Luigi Diberti, capo di Cinecittà invaghitosi della Ferida, che si basa su più personaggi realmente esistiti. Discorso a parte merita il trattamento riservato a Junio Valerio Borghese, troppo abbozzato e poco approfondito. D’altro canto, fedeli risultano le rappresentazioni dei due protagonisti: Osvaldo Valenti, megalomane e tossicomane, è un esplosivo e scatenato Luca Zingaretti; Luisa Ferida, sofferta e dolente, è una Monica Bellucci volenterosa e credibile. Il sangue pazzo che scorre nelle loro vene è evidente, ma il film non fa palpitare, non strugge, non emoziona. Plasticamente bello, narrativamente fluido, però non colpisce, entusiasma, avvince. Quasi a sottolineare una sorta di parentela (voluta, cercata, ma non concreta) col suo opus più famoso, ecco che sbucano Sonia Bergamasco come prigioniera e Luigi Lo Cascio partigiano già ne La meglio gioventù: Ferida e Valenti non sono la meglio gioventù, sono il contraltare iconograficamente identificato come il peggio, ma salvarli dall’oblio dell’odio fa parte del romanzo nazionale di cui da qualche tempo Giordana intende farsi cantore. Sanguepazzo è un’occasione mancata. Oppure: non è che forse aveva sin dal principio i presupposti per essere un film utile ma non necessario?
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