Regia di David Ayer vedi scheda film
“E’ rimasto qualche poliziotto onesto o si fanno tutti i cazzi loro?”
David Ayer è completamente negato per il poliziesco (e temo non solo). Dopo l’indecente “Harsh times” è la volta di questo demenziale, fin dal titolo italiano, “La notte non aspetta”. Sembra una parodia del genere, stile “Scary movie”. Non inganni il fatto che la sceneggiatura, oltre che dall’esordiente Jamie Moss e da Kurt Wimmer (regista di “Equilibrium” e “Ultraviolet” e sceneggiatore di “Gioco a due”, “La regola del sospetto”, “Giustizia privata” e “Salt”) sia firmata anche da James Ellroy (probabilmente era del tutto brillo quando l’ha scritta). “La notte non aspetta” è un film sbagliato, fasullo, plateale e sterile. Ci sono dialoghi sentenziosi e teatrali che vorrebbero essere drammatici ma suscitano solo ilarità come ad esempio “Il sangue non si lava con il sangue” o “”Nel mio mondo, in quello reale, dal male nasce solo il male!”. I personaggi sono di una piattezza sconfortante alle prese con l’ennesima flaccida e risaputa storia di poliziotti corrotti, marci, collusi con i peggiori criminali in circolazione ma pronti altresì a ricattare anche le più alte sfere di potere per acquistare prestigio e visibilità, perché “siamo della polizia, facciamo quello che vogliamo: non conta quello che è successo ma quello che scriviamo.” Diverse sequenze di violenza compiaciuta e gratuita poco o nulla aggiungono alla vicenda. Altre sequenze invece sfidano il ridicolo involontario: su tutte quella patetica in cui il personaggio di Reeves, ammanettato e legato, si trascina lungo il terreno, si butta nella fossa scavata per lui dai due delinquenti di turno (ovvio due suoi colleghi poliziotti che devono farlo fuori e che assistono divertiti alla scena sparando a vuoto, ignari del destino che li attende) e poi riesce brillantemente a liberarsi dei due o quella in cui, dopo che il collega Washington è stato crivellato di colpi, Reeves gli si avvicina e gli dice: “Ti prego, resisti!”. La sceneggiatura ha uno sviluppo prevedibile, ingolfato ed infantile e peraltro si conclude con una deplorevole esaltazione della giustizia fai da te. La regia di Ayer non ha un guizzo di originalità ed in alcuni passaggi mi sembra che ricicli tutto il riciclabile possibile (l’incipit è sostanzialmente identico a “Training day” da lui scritto). Gli attori sono poi la definitiva mazzata: Keanu Reeves, con il suo sguardo assente e monocorde non dà un minimo di spessore al solito poliziotto tormentato, dal tragico passato, razzista ed alcolizzato, sfruttato dai suoi superiori per la sua capacità di risolvere in modo brutale e diretto le indagini più complesse (viene infatti definito “il giustiziere più spietato di Los Angeles”) e sembra perennemente in “Matrix” (leggi altra dimensione o altro film). Forest Whitaker fa dimenticare con questa sua isterica partecipazione quanto sia bravo come attore, soprattutto quando nel finale, per giustificare le sue malefatte, dice “E’ così che va il nostro mondo”. Quanto a Hugh Laurie nei panni del “poliziotto che fotte un poliziotto”, credo di essere uno dei pochi a non aver mai visto nessun episodio di “Dr. House”: spero che nella serie tv tanto amata sia più incisivo e meno affettato. Al di là di questi insormontabili limiti, il vero problema però dei film di Ayer (scritti o diretti poco cambia) è che non hanno cuore: le sue storie, tutte noiosamente uguali a se stesse, non appassionano, i suoi personaggi sono pretenziosi, stereotipati, non coinvolgono, i suoi toni sono così didascalici, finti ed enfatici che perdono di forza, di credibilità, di energia, di personalità, di ambiguità. E così quello che vorrebbe essere il ritratto crudo, ossessivo e disperato di una polizia viziosa, immorale, allo sbando e senza dignità (“I poliziotti sono come l’erbaccia: ne elimini uno e ne spuntano fuori altri due” o ancora “E’ rimasto qualche poliziotto onesto o si fanno tutti i cazzi loro?”) risulta di conseguenza artefatto, velleitario, trito, inerte e meccanico, di un’ovvietà sconfortante e deprimente, culminante in un dialogo finale irritante nel suo programmato e stantio pessimismo di riporto: “Ma il nostro dovere non era arrestare i delinquenti?” chiede Reeves. “Siamo tutti delinquenti” gliviene replicato in modo lapidario e rassegnato dal capitano. Certo, soprattutto nella prima ora, la tensione regge, le sequenze d’azione hanno una discreta perizia, il montaggio incalzante garantisce un buon ritmo e l’intreccio ha una sua piacevole scorrevolezza ma questo anche il più mediocre mestierante ormai oggi è in grado quasi sempre di garantirlo. Non si può però pretendere che lo spettatore stia al gioco, accettando forzature, incongruenze ed approssimazioni che vanno al di là del minimo buon senso quando il gioco si fa così scoperto, disonesto e sfacciato. Ridateci “Serpico”, peraltro citato esplicitamente nel film. Dopo due flop così fragorosi (quanto meno di pubblico visto che certa critica è riuscita a parlare bene anche di questo film) sarebbe stata logica una lunga e doverosa pausa ai boxes. Invece Ayer è già al lavoro in una grossa produzione: il remake di “Commando”. Così va Hollywood oggi. Poi non chiediamoci perché gente come Cimino, De Palma o Walter Hill non lavora più! Resta da aggiungere che la storia di Ellroy, scritta a metà anni novanta ispirandosi al processo di O.J. Simpson, è passata tra le mani di Spike Lee, David Fincher e Oliver Stone. A scatola chiusa direi che tutti e tre avrebbero senza alcun dubbio fatto un lavoro meno deplorevole e scontato.
Voto: 4
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