Regia di Michael Cimino vedi scheda film
“Un film di guerra girato in tempo di pace”.
In un’intervista concessa ai Cahiers di Cinéma Michael Cimino prese in prestito una definizione del fotografo britannico Donald McCullin per descrivere il suo quarto lungometraggio, L’anno del dragone (Year of the Dragon, 1985).
Sono trascorsi cinque anni dalle vicissitudini legate al monumentale I cancelli del cielo (Heaven’s Gate, 1980), pellicola a cui si attribuì il fallimento della United Artist, causa lo spropositato budget lievitato da 8 a ben 40 milioni di dollari, e la relativa vendita, però già da tempo prevista, alla MGM.
In realtà il flop della pellicola fu in parte programmato, con una distribuzione limitata sia nella iniziale versione di più di quattro ore che nella successiva versione ridotta ad opera dello stesso Cimino, dalla industria hollywoodiana per mettere un freno alla spropositata “grandeur”, anche (soprattutto?) di natura economica, della generazione di autori della cosiddetta New Hollywood.
Dopo “l’affaire” de I cancelli del cielo, Michael Cimino trovò comunque in Dino De Laurentiis una specie di “produttore illuminato”, pronto non solo a concedergli una seconda chance, appunto con L’anno del dragone, ma anche una terza con il successivo Ore disperate (Desperate Hours, 1990), remake dell'omonimo film del 1955 di William Wyler con protagonista Humphrey Bogart.
Con L'anno del dragone, adattamento dell’omonimo romanzo bestseller di Robert Daley e co-sceneggiato dallo stesso regista insieme al premio Oscar Oliver Stone, vincitore della statuetta nel ‘79 con Fuga di mezzanotte di Alan Parker, la coppia non ottenne però i risultati sperati, sia di pubblico che di critica, e questo nonostante il film sia uno dei polizieschi più ispirati e avvincenti di quel decennio.
Opera estremamente ambiziosa ma anche imperfetta, seppur con un emblematico fascino viscerale, il film di Michael Cimino è un poliziesco cupo e sontuoso, a cavallo tra l’epica del western americano e la disillusione dettata dalla fine del sogno americano, tanto trascinante nella sua potenza visiva da farsi perdonare (!) qualche eccesso, come la sua compiaciuta estetica della violenza o gli abbondanti stereotipi sulla comunità cinese (e che gli costarono accuse di razzismo da parte della stampa americana), per un affresco ricco e ipertrofico di una serrata indagine sulla mafia cinese di New York che la unisce, anche volutamente, a un altro capolavoro del cinema americano quale il Chinatown di Roman Polanski, omaggiato direttamente nella pellicola con il nome della nave, la Pulaski, che trasporta eroina per conto della Triade.
Dieci anni dopo il film di Polanski, Cimino ci riporta quindi nuovamente a Chinatown, non più a Los Angeles questa volta ma a New York, per continuare a raccontare le contraddizioni dell’America attraverso un noir metropolitano dalle sfumature addirittura apocalittiche.
Il fascino morboso di questa Chinatown "ricostruita" per l'occasione in North Carolina emerge in ogni frammento della pellicola, in piani sequenza che sfruttano ogni spazio scenico, avvolgente e inquieto, e la cui destrezza tecnica di Cimino ci trascina, volenti o meno, tra i vicoli sporchi e fumosi di questo microcosmo culturale inviolabile dalla legge americana e dove ad avere importanza sono soltanto i giochi di potere delle varie Triadi.
All’indimenticabile Jack Nicholson di Chinatown veniva dato un unico consiglio, fare il meno possibile, perché è impossibile cambiare le cose a Chinatown.
Il sistema costituito, ingiusto, corrotto o deprecabile, avrà sempre il modo di ricostruirsi, o di rinnovarsi rimando però sempre uguale a sé stesso.
Perché il (vero) potere non ha volto o quando lo mostra è soltanto una delle sue mille facce.
Nella Chinatown de L’anno del Dragone lo stesso stridente ossimoro riprende vita attraverso una regia rigorosa e impeccabile, e a un innovativo uso dello spazio scenico in un’ellisse tra regia e fase di montaggio, visceralmente dominato da una violenza anche spregiudicata, non solo quella della Mafia ma anche di chi la combatte anche con impeto libidinoso, ma (quasi) mai gratuita.
L’anno del dragone affascina proprio per la sua maniera unica di essere al tempo stesso lurido e raffinato, freddo e appassionato e, in questo, è fondamentale l’uso del colore, specie il rosso, per descrivere questo “inferno in terra”, anche grazie alla fotografia spiccatamente noir di Alex Thomson, che è poi la Chinatown di Cimino, babele e labirinto inestricabile di corruzione e inconfessati segreti.
E, come in altri film di Cimino, la tematica dell’immigrazione e delle radici di appartenenza, un legame quasi indissolubile, è anche qui assolutamente centrale.
In fondo, il sangue non è acqua e, a torto o a ragione, condiziona tutto e tutti.
Protagonista un monumentale Mickey Rourke, invecchiato e vestito come un eroe noir d’altri tempi e totalmente immerso in un personaggio controverso, scostante, arrogante e aggressivo ma anche eroe solitario contro tutto e tutti, figlio di una minoranza (è di origini polacche) che ne combatte un’altra, forse (anche) per legittimare la propria americanità, e che, per ostinazione e paranoia razziale, ricorda l’Ethan Edwards di John Wayne in Sentieri Selvaggi, ma anche (forse) l’avversione (profetica) della stessa America verso la futura potenza mondiale che si opporrà al suo potere.
Suo antagonista il Joey Tai di John Lone, figura speculare al White di Rourke, entrambi in guerra contro il sistema, che si vorrebbe sempre uguale a se stesso, e le vecchie generazioni, incapace di accettarne il cambiamento. White, reduce del Vietnam, trova a Chinatown un nuovo campo di battaglia dove cerca di ribaltarne l’esito anche (soprattutto?) per una rivalsa personale, mentre il suo nemico si rivela un outsider esattamente come lui, una minaccia che lo stesso sistema mafioso delle Triade, per difendere se stessa, vorrebbe eliminare.
A dipingere il torbido affresco della malavita organizzata cinese di New York concorrono Ariane Koizumi, modella nippo-olandese alla sua prima esperienza della sua (giustamente) breve carriera cinematografica, Caroline Kava, Raymond J. Barry, Eddie Jones, Jack Kehler, Tony Lip e, soprattutto, molti attori di origine cinese come Joey Chin, Dennis Dun, Victor Wong, Tisa Chang, Jadin Wong e Al Leong.
Profondamente pessimista e mortuario (assistiamo a ben tre funerali all’inizio del film, a metà e alla fine, con quello proprio di Joey Tai), questo suo quarto lungometraggio resta un esempio indelebile della poetica di Michael Cimino, incentrato sulla disillusione del sogno americano (facile a trasformarsi in un incubo) e in un perpetuo stato di conflitto, anche in tempo di pace, che non abbandona mai l’uomo ma che, anzi, ne continua a condizionare le scelte, spesso sbagliate.
VOTO: 8
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