Regia di Martin McDonagh vedi scheda film
"In Bruges" sacrifica il non senso della vita sull'altare della farsa seppellendolo sotto alla spessa coltre d'idiozia che la nemesi dell'autoredenzione vomita fuori dall'autoanalisi demenziale a chiosa d'opera: il “significato”, la “morale”, per l'appunto, della tragedia ridicola.
Cosa fare a Bruges quando sei morto.
“In Bruges”, il lavoro d'esordio (per quanto riguarda il campo cinematografico, avendo il regista e commediografo già nel curriculum due trilogie e altre opere teatrali) nel lungo (dopo il corto “Six Shooter” e prima di “Seven Psychopaths” e “Three Billboards Outside Ebbing, Missouri”) di Martin McDonagh, classe 1970 (fratello minore - in realizzazione artistica più precoce - del John Michael di “the Guard”, “Calvary” e “War on EveryOne”), in cui le citazioni dirette e letterali si sprecano, da Nicolas Roeg (“Don't Look Now”, nei dialoghi e, nelle intenzioni, nell'atmosfera sul set del film nel film: qui la fotografia, molto bella, è di Eigil Bryld: "You Don'T Know Jack", "Not Fade Away", "Crisis in Six Scenes", "Wizard of Lies") a Orson Welles (“Touch of Evil”, in un passaggio televisivo: qui il montaggio, al lavoro senza piani sequenza particolari, è di Jon Gregory: molti Mike Leigh, qualche Mike Newell, due John Hillcoat, più "Ned Kelly" e "Slow West") passando per Hieronimous Bosch (da questo PdV il film, per forma grammaticale e contenuto morale, è quasi un generatore automatico di frammenti dal Trittico del Giudizio di Bruges, d'incerta attribuzione, conservato al Groeninge Museum) e Harold Pinter (il 1° tempo si chiude là dove cala il sipario de “il Calapranzi”), mentre l'aura è, e non certo solo per la presenza di Carter Burwell (ch'esce soprattutto nella 2a parte, ché nella 1a è insolitamente fuori fuoco e mal utilizzato), coeniana (“Burn After Reading” - di cui però non conserva la lucida apoteosi del mentecattume - piuttosto che “Blood Simple”, “Fargo” e “No Country for Old Men”), ma la carne - ché impossibili e ridicoli sarebbero i paragoni con la lucidità pessimistica di Kubrick, col nichilismo espiativo di Scorsese e Ferrara, con la spudoratezza melò di De Palma (Carlito Brigante, ovviamente) o col calderone post-moderno di Tarantino - ricorda nel gusto e nei valori nutritivi i primi filmacci (gli altri non son manco tali) di Guy Ritchie innestati con venature del “Ronin” di Frankenheimer, è un film completamente, compiutamente immorale, rispecchiante alla perfezione - effetto collaterale cercato e voluto - il mondo, e di ciò è consapevole dall'inizio alla fine, sacrificando sull'altare della farsa - seppellendo due volte, nel mettere in scena questa sua essenza, la vittima inconsapevole e innocente [blooperisticamente raggelata dagli spari che centrano al ventre al di là della porta Mance Rider aka Ciarán Hinds in versione...”Calvary” (?) il quale, fatto qualche passo, viene finito freddandolo alle spalle da Ray che lo guarda cadere a terra scoprendo così di aver fatto, come danno collaterale, la frangetta alta un po' troppo marcata e profonda a un eucaristico (ac)comun(ic)ando ripassante la lista dei peccati capitali commessi] sotto alla spessa coltre d'idiozia che la nemesi dell'autoredenzione vomita fuori dall'autoanalisi - il “senso”, il “significato”, la “morale”, per l'appunto, della ridicola tragedia.
Gran lavoro di Colin Farrell (Ray) - nel pieno del suo periodo (per lo meno cinematografico) d'oro composto anche da “the New World”, “Miami Vice” e “Cassandra's Dream” (verranno poi “Seven Psychopaths”, sempre di M.McDonagh, la seconda stagione di “True Detective”, i 2 Lanthimos, “the Lobster” e “the Killing of a Sacred Deer”, e “the Beguiled” di Sophia Coppola) nel rendere (dis)umano il carattere di un idiota insipiente (fratello minore un po' sfigato del Vincent Vega di 15 anni prima), oltre che sull'accento e l'intonazione (e le sopracciglia).
Brendan Gleeson (Ken) sottilmente sottotono, con lampi di raggelata ferocia (auto)distruttiva in nuce. Ralph Fiennes (Harry) anima un personaggio più granitico e meno sfaccettato, con lampi di poliedrico mestiere. Completano il cast Jordan Prentice, il danno collaterale che quadra il cerchio (attendo lo spin-off in memoriam sulla Grande Guerra tra Nani Bianchi e Nani Neri), le splendide Clémence Poésy, Anna Madeley (“Utopia”) e Thekla Reuten, il dardennesco Jérémie Renier e lo sloveno...canadese Zeljko Ivanek (già in “Oz” e “DogVille” e poi anche in “Seven Psychopaths” e “Three Billboards Outside Ebbing, Missouri”), ed Eric Gordon.
PS. Bruges/Brugge, nelle Fiandre, Patrimonio dell'Umanità UNESCO per quanto concerne il suo centro storico medioevale (anche se, dice, hanno appena aperto una bretella autostradale che sembra di stare a Cormano), non è poi così brutta, ma siccome qui non siete su tripadvisor/trivago o in una guida michelin/touringclub vi beccate solo qualche primo piano più o meno espressivo.
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