Regia di Rod Lurie vedi scheda film
Può la finzione, sovrapposta alla realtà, oppure proprio incastrata in essa, a modificare la percezione della verità fino ad esaltarla in tutta la sua assoluta essenza? Pura ontologia? Forse.
Realtà e verità dovrebbero essere non solo i mezzi e i fini del ruolo civile di ogni essere umano, ma anche gli unici obiettivi che l’uomo dovrebbe rincorrere con tutte le sue forze. Invece, sappiamo fin troppo bene come finzione, sintesi e rappresentazione siano i modi più ricercati da ogni uomo per capire la vita e raccontarla. Attraverso il filtro magico della narrazione, per immagini o per parole - cinema, pittura, arti plastiche, teatro e letteratura - l’uomo comprende ciò che altrimenti non capirebbe. Resta così un eterno e ambiguo dilemma dell’uomo razionale, indeciso se scegliere la verità delle cose o una loro sintesi rappresentativa.
In La rivincita del campione di Rod Lurie assistiamo, senza grandi pretese autoriali, al percorso sia civile che morale di un uomo combattuto tra verità e menzogna. Storia realmente accaduta a Erik Kernan Jr. e a Tommy Kinkaid, il primo giornalista in erba figlio d’arte, il secondo un vecchio boxeur senza tetto che per anni si spacciò per Bob Satterfield, campione del pugilato anni ’50. La vicenda ruota intorno a questo scoop che è in realtà pretesto narrativo per raccontare non una storia di buoni e cattivi, di affaristi senza scrupoli e vittime degli squali, ma piuttosto di raccontare le due facce della stessa medaglia.
La precarietà umana ci mette nella condizione di non essere mai perfetti, e di essere tentati dal successo facile, dalla scorciatoia. La differenza la fa la buona fede. Il dilemma messo in scena da Lurie è: qual è la verità? Quella dei documenti di identità? Delle scartoffie e delle istituzioni? Oppure è verità quella singola porzione di realtà che cade sotto i nostri sensi? È poi davvero così colpevole il vecchio homeless interpretato un po’ troppo sopra le righe da Samuel L Jackson - comunque più che credibile - quando bistrattato dalla vita decide di essere qualcun altro e raccontare non una storia falsa, ma soltanto ribaltandone i ruoli? Oppure come colpevolizzare il giovane giornalista interpretato da Josh Hartnett che pur peccando di leggerezza professionale era solo in buona fede, e che anche dopo aver saputo dell’impalcatura menzognera cui è stato vittima non ha voluto fare un passo indietro, pena la perdita di credibilità, prestigio e stima? Siamo uomini. Cadiamo vittime dei nostri sogni.
Pur non essendo un bellissimo film, dagli snodi narrativi spesso solo informativi e puerili, Resurrecting the Champ - così il titolo originale e anche il titolo del servizio apparso sul Denver Times Magazine - per non dire delle distorsioni che i reali protagonisti della vicenda vi avrebbero trovato, resta un esempio di buono spettacolo, purtroppo dai buoni sentimenti, da quel mito tutto americano del sacrificio e della redenzione - gli americani hanno più di uno scheletro nell’armadio per dormire sereni la notte - che un po’ annacqua la trama senza però distruggere tutta la resa finale, che resta quindi godibile. Aiuta molto la presenza di Jackson, in un ruolo troppo pieno di carattere da essere appesantito nella recitazione solo fintamente sobria dell’attore, così come appare imbolsito lo stesso Hartnett. Ma ce ne vuole prima che il gigante di St. Paul, Minnesota, l’attore di pietra, l’attore dagli occhi scuri e liquidi, piccoli, possa risultare anche solo lontanamente bolso e sciatto, puerile e legnoso. Resta, Hartnett, uno dei migliori corpi attorici di questa generazione. Una grossa pietra bronsoniana dalle inaspettate emozioni liquide.
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