Regia di Shane Meadows vedi scheda film
Ispirato all’adolescenza del regista nelle Midlands inglesi, il film è al tempo stesso un vero e proprio “romanzo di formazione” e un’indagine sociologica di grande rilevanza che racconta Il percorso di crescita conoscitiva della vita di un problematico dodicenne alla disperata ricerca della figura paterna che gli è venuta a mancare troppo presto.
Finalmente sembra che si siano decisi a far uscire dalla quarantena questo interessante e straordinario This is England (a più di quattro anni di distanza però dal suo passaggio da manifestazioni importanti come le rassegne di Roma e di Toronto): la sua distribuzione nelle nostre sale dovrebbe essere ormai prossima (speriamo solo che sia fatta capillarmente con un adeguato numero di copie, perché il film merita davvero di essere conosciuto e visto più di quanto non sia accaduto fino a questo momento – almeno qui in Italia).
This is England, ispirato all’adolescenza del regista nelle Midlands inglesi, può essere infatti considerato un vero e proprio “romanzo di formazione” e un’indagine sociologica di grande rilevanza. Il percorso di crescita conoscitiva della vita, è quello di un problematico dodicenne alla disperata ricerca di modelli comportamentali e soprattutto della figura paterna che gli è venuta a mancare troppo presto (il padre è morto nella guerra delle Falkland) in un’epoca davvero “cruciale” e piena di contraddizioni, come quella che ha caratterizzato il Regno Unito nei decenni conclusivi del secolo scorso.
Lo sfondo è dunque quello dell’Inghilterra dei primi anni ’80 (la famigerata “era Thatcher”come ben sappiamo, corrosa dalle forti tensioni sociali, la disoccupazione, le rivolte e gli scontri razziali e tutto il negativo che si è portata dietro: un periodo davvero nefasto e pieno di inquietudini che ancora non si sono del tutto dissolte, dilagando dall’Inghilterra, nel mondo intero per contaminare animi e pensieri).
Il microcosmo in cui si muove Shaum, il giovane protagonista della storia, è variegato e complesso e riguarda in qualche modo “la marginalità dell’esistenza” e del disagio, ma anche lo smarrimento disadattato di chi cerca di ribellarsi alle regole di un conformismo imperante in una società sempre meno “a misura d’uomo” dentro alla quale si è costretti a vivere fra disuguaglianze e vessazioni.
Shaun, che la sciagurata guerra per le Falkland ha reso orfano (come ho già prima accennato), non ha avuto un’infanzia facile né tantomeno serena. Pieno di complessi e di inibizioni e con una pseudo famiglia praticamente assente, si sente emarginato, quasi rifiutato dai coetanei, ed avverte un disperato bisogno di “certezze” che lo sorreggano in qualche modo nel suo progredire verso la vita.
Alla fine di un anno scolastico “moralmente” abbastanza disastroso, si imbatte in un gruppo di skinhead, con il quale entra in forte empatia (e sarà questo il modo ideale per farci conoscere meglio un’umanità “diversa” e avversata ma meno crudele ed altruista di quanto si preferisca pensare in apparenza: dietro le teste rasate e le estremizzazioni di facciata, il ragazzo - nel frattempo “adottato” dal gruppo come mascotte - scoprirà infatti persone e ideali contrastanti, magari non sempre e del tutto condivisibili, ma per molti versi concreti ed accoglienti. E il suo punto di riferimento dentro questa (ri)trovata anomala “famiglia, diventeranno proprio Woody e la ragazza Lol, in fondo “soprattutto” due brave persone, per le quali essere skin (movimento che deriva dai mod degli anni ’60 e dall’amore per i ritmi caraibici) è soltanto un “segno di appartenenza” come un altro, non certo di convinzione mentale e ideologica.
Questo è però solo il punto di partenza, la motivazione che spiega l’adesione”sentimentale” del ragazzo che lo fa “scegliere” diventare membro di una multiforme comunità che avrà poi (come vedremo in seguito) anche punte di accentuata, estrema e radicalizzata ribellione, e che comprende una grossa fetta di disadattamento sociale di differente provenienza ed estrazione: molti degli appartenenti al gruppo sono probabilmente solo smarriti, altri un po’ limitati mentalmente o solo fortemente influenzabili, come Smell (che gli offre i primi approcci amorosi) o il corpulento Gadget. Ma c’è anche Combo (quello che potremmo in qualche modo considerare “la mela marcia nella cesta”), appena uscito di prigione, personaggio psicologicamente fragile e rancoroso, violento e aggressivo, ma fortemente carismatico e per questo ancor più pericoloso, che con il suo arrivo porterà lo scompiglio nella gang e massacrerà di botte il “nero” Milky, non tanto però per una questione di colore della pelle, ma semplicemente per il fatto di aver appreso che il giovane “ha avuto la fortuna” di crescere nella normalità di una famiglia serena, cosa che lui non ha conosciuto e che lo fa entrare in bestia facendo emergere tutta la sua acrimonia.
L’impronta estremistica che ne deriva, pian piano amplificata dalle contese e dagli eventi, prende così sempre più forma e consistenza: si infittiscono notevolmente i contatti col National Front e i raid punitivi, in costante aumento, si susseguono incessanti con crescente virulenza. Sempre più a rimorchio di Combo, il gruppo comincia così a sfaldarsi e anche per Shaun ritorna il conflitto interiore: là non si sente più protetto né sicuro, e avverte che è vicino il momento in cui dovrà scegliere di nuovo “da che parte stare davvero”.
Non vorrei però essere frainteso perché se il clima di tensione e violenza che si avverte e si sviluppa praticamente anche nelle azioni, è evidente e concreto, non è certo questo il tema prioritario di un’opera che predilige l’analisi anche psicologica delle dinamiche di gruppo e su queste si focalizza. Quello che sta principalmente a cuore del regista Meadows (già autore dell’ottimo Ventiquattrosette), è infatti mettere a fuoco e concentrarsi sul contesto ambientale e sulla maturazione di un ragazzo come Shaun – il riflesso della sua infanzia - in un età difficile come quella adolescenziale, quando anche solo essere presi in giro per i pantaloni a zampa d’elefante può diventare un problema gravissimo e insormontabile. Lo fa con empatica partecipazione accompagnata da una insolita, eccellente delicatezza di toni e una profondità di analisi che Mario Mazzetti ha definito molto vicino al Rohmer dei racconti morali.
La definizione di Shaun, dei sui tratti psicologici, dei suoi bisogni e delle sue contraddizioni, è di straordinaria efficacia, non solo per ciò che viene fuori dalle immagini, ma proprio per come è stato realizzato e scritto” il personaggio in fase di sceneggiatura, e l’apporto dell’interprete, il giovanissimo Thomas Turgoose, è di eccellente rilevanza proprio nel contribuire a renderlo indimenticabile. Alla Festa del cinema di Roma, presente in sala durante la proiezione, dette per altro prova della sua particolare, profonda sensibilità quando, sulla dedica finale del film (a sua madre nel frattempo deceduta) scoppiò in un pianto dirotto fra i fragorosi applausi “solidali” di un pubblico altrettanto commosso davanti a quella inaspettata esplosione di dolore.
Ma tutto il cast è esemplare, da Jo Harley a Joe Gilgun; da Vicky McClure a Andrew Shim, con una menzione speciale per Stephen Graham impegnato nel difficile e ingrato ruolo di Combo che risolve magistralmente.
Splendidi ed emozionanti anche i due corposi montaggi d’epoca messi in apertura e in chiusura dell’opera che caratterizzano come meglio non sarebbe stato possibile non solo l’epoca di riferimento, ma anche i disagi di una crisi economica che rischiò di mettere in ginocchio (e mise sicuramente in mutande) l’Inghilterra, spesso “malamente” celata dietro i new romantic e l’edonismo tatcheriano
Altrettanto straordinaria la colonna sonora – ulteriore, fondamentale contributo per sincronizzarsi su un’epoca aspra e ambigua come quella, che ha per altro sulla coscienza lo sdoganamento del liberismo selvaggio e il ritorno a una progressiva arretratezza sociale con i disconoscimento di molti (quasi tutti) i diritti acquisiti attraverso le lotte dei decenni precedenti - che include pezzi degli Specials e di Percy Sledge, cover degli Smiths, Louie Louie e Come on Eilen.
Questa è l’Inghilterra del disincanto, ragazzo mio, puoi anche riavvolgere la bandiera dell’Union Jack: credo che la miglior conclusione per indicare e confermare il valore e il senso di un’opera coraggiosa come questa, realizzata con perizia e di non indifferente rilevanza politica e sociale, sia proprio quella di citare queste parole, riportate in chiusura dei un pezzo su Vivilcinema dal già citato Mario Mazzetti e che molto meglio delle mie, possono servire allo scopo.
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