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Soo

Regia di Yoichi Sai vedi scheda film

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La recensione su Soo

di joseba
6 stelle

Intrepido professionista del crimine e pilota provetto, Tae-soo cerca da quasi vent'anni il fratello gemello Tae-jin, strappatogli da un criminale che lo ha scambiato per lui. Solo e divorato dai sensi di colpa, Tae-soo riesce finalmente a trovare Tae-jin, ma al momento del tanto sospirato incontro accade l'irreparabile. Non si darà pace finché non si sarà vendicato. Redenzione: questa la parola chiave di Soo, primo lungometraggio integralmente coreano di Sai Yoichi (aka Choi Yang-il), il regista di "Blood and Bones". Tae-soo (Ji Jin-hee, attore proveniente dal mondo televisivo dei drama) desidera ardentemente il perdono del fratello gemello Tae-jin, costretto per un errore di persona (i due ragazzini oltre a essere sputati si vestivano allo stesso modo) a pagare le conseguenze di uno sconsideratissimo gesto del gemello: scippare un malavitoso. Il destino cinico e baro vuole che lo scambio di identità si ripeta, ma a parti inverse: presi i panni di Tae-jin, Tae-soo si infiltra nella polizia per trovare i colpevoli della morte del fratello e fare finalmente giustizia. Inevitabilmente Tae-soo combatte contro se stesso, è lui ad incarnare il senso di colpa per eccellenza. Alla radice del male - individuale e sociale - c'è l'avidità, l'arrivismo. L'ambizione personale, la lotta tra gang, la corruzione della polizia: riflessi di una brama di potere che non conosce steccati etici, soltanto spazi e uomini da conquistare. Per arginarla non c'è che un modo, il sangue. Un teorema duro come una lama d'acciaio (le armi da taglio scintillano a profusione) e inesorabile come un fantasma che perseguita (la figura del doppio è letteralmente incisa nella carne di Tae-soo), d'altro canto il determinismo è la tela morale più adatta al genere nero, soprattutto quando si tinge di vendetta. Un revenge noir che schiuma rabbia ma che si schianta contro l'imparzialità della forma: a differenza dei cugini coreani, Sai Yoichi, cineasta di formazione e origine giapponese, non aderisce visivamente all'irruenza del suo protagonista, al contrario blocca le coordinate della rappresentazione in inquadrature impassibili e distanti. Fare attenzione: non si tratta di quella qualità grezza dello sguardo che è data trovare nei gangster movie di Im Kwon-taek (quali "General's Son" o "Raging Years"), ma di una fermezza più raffinata e misurata, incline a calarsi nelle geometrie statiche della composizione frontale e del piano sequenza. Una freddezza formulaica che tuttavia ingabbia il film in un recinto estetizzante da cui non riesce mai a fuoriuscire, condannando il cruore della rappresentazione (il bagno di sangue dello showdown finale è qualcosa di davvero spropositato) alla gratuità e, cosa ben peggiore, alla stagnazione. Non si provano brividi né emozioni di sorta, ci si limita a calcolare il litraggio di sangue erogato in un dato intervallo di tempo. Per appassionati di record.

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