Se esistesse una sorta di "Quarto stato" del cinema britannico cioè di qualcosa che non fosse già compreso nelle rappresentazioni di genere (quali efficaci sottoprodotti filo americani) o che attingono da un corposo patrimonio tradizionale storico, letterario e teatrale, o meglio altro ancora non inseribile in quel nuovo cinema sociale e disincantato ma in aperto dialogo con i valori imperanti, ex giovani autori opportunamente trascurati dalle distribuzioni ufficiali come S.Meadows, L.Abrahamson e J.Crowley (quest'ultimo il regista di Boy-A) troverebbero una precisa collocazione. Le peculiari differenze che li distanziano dai loro vecchi padri putativi, Loach e Leigh (due non proprio a caso) risiedono nella mancanza assoluta di una mediazione sociale con le immagini, con i contenuti forti e disturbanti che propongono, con la lucida attenzione verso i loro discutibili protagonisti senza che il contesto intorno a loro cerchi in qualche modo di recuperarne l'identità sociale ammissibile. Il giovane protagonista di Boy-A ci regala la lettura del suo emisfero esistenziale con uno smarrimento pari allo sguardo interrogativo dello psicolabile Josie (Garage,2007) o vicino alla disperata vitalità delle vuote scorribande degli skinheads (This is England,2006) dentro un microcosmo di emozioni e di sentimenti che la società buona gli nega, in questo caso gli cancella. Jack, ma non è il vero nome di Boy-A, ha trascorso più di metà della sua breve vita in carcere per un delitto orrendo, ottiene la libertà grazie ad un programma di reinserimento sociale che si occupa anche della sua protezione fornendogli una falsa identità, per metterlo al riparo da eventuali ritorsioni. Il confronto con il mondo esterno sarà pieno di imprevisti. Il regista irlandese Crowley isola il personaggio di Jack, fornisce la sua esclusiva nuova, nascente visione del mondo, il suo sguardo è acerbo, ingenuo, scollegato con la realtà. Dall'altra parte fuori dall'immagine centrale e fuori dallo schermo c'è il pregiudizio, compreso quello di chi guarda, che attraverso un doloroso e neutrale racconto in flashback, viene messo davanti alla prova dei fatti, si conoscerà il passato del ragazzo ma il film ha la forza di smuovere la mente, di mettere di fronte ad un senso di giustizia che non ha nulla a che fare con le leggi scritte nè con quelle divine. L'intento di Crowley non è di pilotarci verso una sofferta assoluzione del personaggio per attribuirne le responsabilità passate ad un'eufemistica società della colpa. Jack, ha scontato il suo debito ma reclama il suo diritto a vivere il resto della sua esistenza come un'altra persona, seppure dilaniato internamente dal rimorso. Il regista accusa la società della comunicazione, dell'informazione, la cui azione di sovraesposizione inquina, deteriora, alimenta la solitudine, l'ignoranza, la repressione conformista. Le immagini si susseguono con un tono tragicamente irrequieto, sempre in bilico fra l'oscurità (all'inizio lo schermo è quasi diviso fra il volto del giovane e una metà nera) e quella disperata luce vitale che il ragazzo vorrebbe incontrare. Come il cinema impegnato impone, una parte della vicenda è occupata dai famigerati (scellerati secondo Loach) servizi sociali inglesi. Nel caso di Boy-A non si contrappongono però al soggetto principale. Terry, l'assistente sociale interpretato da P.Mullan che si occupa del caso si rapporta con Jack da essere umano e non da figura istituzionale, da uomo non esente da conflitti, timori, dotato di affetto disinteressato. Il suo ruolo incarnerà in maniera del tutto involontaria quella funzione di mediazione e di gestione del pregiudizio sociale, che rimarca la distanza fra la cultura del possibile e l'arida realtà che non sa vedere oltre e dentro l'uscio di casa propria.
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