Regia di Paolo Sorrentino vedi scheda film
Un'opera estetica, più che storica o politica. Il ritratto di una maestà silenziosa, che non ha, però, nulla di regale, perché è dipinta come un pupazzo di carne, una maschera di cartapesta dallo spirito velatamente diabolico. Una scatola chiusa, un involucro coriaceo in cui giacciono, inerti e sprofondati, gli indicibili segreti della nostra Italia. L'entourage del "divo" è, più che una corte, un teatro di burattini senz'anima, un museo delle cere da cui il turbine del "suo" ineffabile potere ha risucchiato tutta l'aria. Sorrentino, non potendo, come del resto tutti noi, venire a capo della natura del personaggio e del suo effettivo ruolo nelle vicende repubblicane, trova un geniale escamotage facendo della sua inesplicabilità il vero fulcro artistico e narrativo del film. Il protagonista non è altro che un nucleo atomico che irradia il mondo con la sua impalpabile carica elettrica, è un solido agglomerato di attrazione, repulsione, peso ed equilibrio. Egli è, più che un manovratore, un catalizzatore, che, con la sua sola presenza, innesca i processi più rapidi e violenti, senza mai prendervi effettivamente parte. È l'alfa e l'omega perché fa succedere gli eventi, ma per lui è sempre come se questi non fossero successi. "Il divo" è un festival di tutto ciò che di Giulio Andreotti da sempre si sa e si dice, ma che, in fondo, per la gente, è come se non fosse vero. Un'opera costruita intorno a quella che per Eugenio Scalfari è "la grandezza dell'enigma", senza volerla prendere troppo sul serio, ma neanche sminuirla o metterla in dubbio. Un film che si muove, con flemma ed eleganza, sul filo del rasoio che separa la satira dalla biografia e, in questo delicato ed inedito equilibrismo, è davvero riuscito al cento per cento.
Il filo del racconto è il dialogo, brillantemente intessuto di un florilegio di aforismi andreottiani.
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