Regia di Paolo Sorrentino vedi scheda film
Osvaldo Cavandoli e Murnau. Cos' hanno in comune questi due? Il primo è il creatore de "La linea", spassoso e geniale fumetto pop anni 70 del personaggio ingobbito e iroso, costruito sul fondo nero da un'unica linea in punta di matita. L'altro è Murnau il creatore de "Nosferatu" con un Max Schreck passato alla storia. In mezzo a questi due estremi, dall'unione di questo connubio improbabile, sta l'Andreotti di Sorrentino.
E' un ritratto espressionista con venature di grottesco del più grande mistero vivente in quest'Italia dal fondo nero. Un omino che si muove seguendo linee immaginarie sempre perpendicolari tra loro, dinoccolato ed essenziale come un idolo pagano che riassume nelle improbabili fattezze tutte le contraddizioni che dall'inizio della repubblica al 1992, momento della fine del film, ma arrivando in realtà fino ad oggi, ne hanno dato vita.
Un essere soprannaturale e funzionale a sé stesso, chiave di volta di strutture gerarchiche gotiche, oscure e labirintiche come i corridoi che abita, confuso tra suppellettili pesanti e immobili. Inamovibili. Eterne.
E’ un musical, Il Divo, in cui tutti si muovono ad un tempo delirante, ballerini di goffa fattura sulle macerie di una repubblica allo sfascio di cui il Divo Andreotti è insieme coreografo, interprete principale e autore delle musiche. Ballerini di contorno, Cirino Pomicino, il Pr della politica, garrulo e ciarliero come un grillo parlante diviso tra intrallazzi e feste danzanti. Salvo Lima, il morto che parla. Ciarrapico, laido faccendiere. E tutti gli altri esponenti della “corrente andreottiana” della DC che arrivano a palazzo sincopati come cantanti rap in un video “gangsta’” .
Film splendido, Sorrentino consapevolmente si autoreferenzia con sua mostruosa tecnica, e infarcisce tutto di un'ironia acida di fondo che riprende e completa il sarcasmo compiaciuto del suo personaggio che quasi sempre parla per aforismi. Il tratteggio grottesco del personaggio “inquina” tutto il contorno, lo distorce in architetture contorte come fossero proiezioni della mente di un sofisticato burattinaio ed ecco che ogni inquadratura è un quadro di rara bellezza denso di particolari ed elementi che giustificano le scelte stilistiche e donano spessore alla storia e al personaggio stesso. Lo stile di Sorrentino è sontuoso, l’inquadratura ha sempre un senso, nei primi piani distorti dei volti piegati al bigio servire il potere, così nei piani sequenza, nei movimenti di macchina sempre calibrati a generare sorpresa, capaci di una espressività che nel cinema italiano è ora come ora, sconosciutaLo sguardo è strafottente, impietoso Il Divo è trattato come una malefica macchietta, una dannata bambolina Voodoo, inespressiva e letale, incapace di qualsiasi empatia con gli umani ma in grado di dominarne i destini. Questo è l’Andreotti di Sorrentino e Servillo, ormai cosa unica e indissolubile per capacità e intenti. La storia d’Italia è sfigurata da dentro, piano piano il comico e il grottesco si liquefanno negli occhi morti del politico che sempre di più assomiglia ad una caricatura di sé stesso, i cui segreti si sedimentano in uno sterminato archivio ad uso ricattatorio. Si ride, il film fa ridere di uno humor nero come l’eterno abito di Andreotti, si ride delle battute acide e della filosofia mediata tra il sacro appartenere ad una corrente cristiana e la pagana ricerca del potere ad ogni costo. Solo nel secondo tempo, quando per forza di cose il ritratto di Andreotti è compiuto e necessariamente si deve scendere nella storia della Storia che "l'essere" attraversa, il film perde un po' forza, diventando forse leggermente didascalico e verboso, cercando di dare un senso a tutti gli spunti di cronaca pur non riunciando al sovraccumulo visivo che ne costituisce la cifra stilistica. Il maggior pregio de Il Divo è quello in ogni caso di mantenere una struttura e una comprensibilità internazionale nonostante la pesante italianità dell’argomento trattato. Questo grazie al rifiuto del regista di scendere appunto direttamente nell’argomento, trito espediente di telefiction di tanti, troppi, film di denuncia esacerbati. Così il trattamento della materia diventa una parodia feroce di cose che un po’ si sanno, un po’ non si vogliono sapere e un altro po’ intuiamo solamente. Il Divo è Andreotti, è la Storia, è l’effetto del potere sulla Storia e su sé stesso, il prendere le sembianze di ciò che egli rappresenta. La cupa solitudine dell’uomo di potere timorato di Dio il cui unico segreto, alla faccia delle stragi, degli omicidi, delle collusioni è semplicemente quella di qualsiasi essere umano alla quale egli ha dovuto rinunciare in quanto “disumanizzato”: la passione repressa per una donna. Questa collimazione tra mezzo e fine è magistrale, profonda e soprattutto cosciente. A Cannes l’hanno capito e premiato e questo film rimarrà, come rimarrà Sorrentino nella storia del cinema Italiano come uno dei più grandi autori che mai abbiano calcato gli schermi.
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