Regia di Olivier Marchal vedi scheda film
Se paragonato al 97% (non esagero) degli analoghi prodotti americani, “L’ultima missione”, tratto da una storia vera, fa il suo gran bel figurone. Rispetto però al precedente “36” mi sembra costituisca un passo indietro nella comunque, fino ad ora, solida ed appassionante filmografia di Olivier Marchal. In particolare, confesso che dal momento in cui viene risolta (assai bene) la vicenda del serial killer, il film per me perde gran parte del suo interesse. Gli ultimi venti minuti, concentrati sull’”ultima missione” del protagonista (sul titolo italiano d’obbligo stendere il velo pietoso), pur efficaci, sono enfatici e troppo carichi di avvenimenti e simbolismi, penalizzati da una certa stucchevole retorica non del tutto tenuta a freno dal regista e da un crescendo di radicale pessimismo un tantino programmatico - ma ammetto che analoga sensazione avevo avuto di fronte alla conclusione del pur pregevole “Onora il padre e la madre” di Lumet. Lo spettacolo in ogni caso è lussuoso. Marchal come pochi sa raccontare la deriva di “un poliziotto a pezzi che stiamo per seppellire vivo”. Daniel Autetuil è mostruosamente bravo (grazie ad un’interpretazione raffinatissima e trattenuta, il suo personaggio di poliziotto disilluso, sfatto, alcolizzato e sconfitto, divorato da rimorsi e sensi di colpa, ma ancora con un occhio lucido per sbrogliare un’intricata matassa investigativa, tocca vette di struggente, sofferta ed anche rabbiosa malinconia ben espressa dalla frase con cui apre il film “Dio mi ha tradito e io lo punirò!”), ma una menzione speciale merita la splendida e umanissima Catherine Marchal, perfetta incarnazione del poliziotto che riceve istruzioni dall’alto e, suo malgrado, deve tenere la bocca chiusa. Il ritmo è implacabile, senza un attimo di noia, il contesto è descritto con la consueta ammirevole credibilità e perizia, sintetizzato magnificamente da uno scambio di battute iniziale “Quello è una bomba a orologeria. Finirà per scoppiarci in mano!” “Sono tutte bombe a orologeria, qui!”), le psicologie sono delineate con estrema intelligenza ed umanità (uno dei grandi meriti di Marchal, confermato anche in questo film, è avere rivitalizzato caratteri ormai logorati dagli stereotipi riconducendoli nel loro realistico e sporco habitat naturale, senza forzature), i toni crepuscolari, notturni, fatalistici e disperati del racconto sono autentici, mai artefatti o di maniera (“Non ho voluto io tutto questo!” dice Marie a Schneider che replica secco “Nessuno l’ha voluto: però è successo!”), alcune sequenze sono magistrali (il sequestro iniziale del pullman, l’inseguimento al canile, l’assalto all’obitorio), i dialoghi sono lapidari e asciutti, la tensione è altissima (terrorizzante la scena in cui Justine, tutta sola in casa, trova la sua foto sul tavolino in sala). Inoltre l’impatto emotivo delle storie è sempre bruciante e torrenziale, lo stile visivo formidabile (mai vista una Marsiglia così opprimente e cupa), la passione nella messa in scena impetuosa, direi contagiosa, anche umanamente sofferta. Eppure il terzo capitolo della trilogia iniziata con “Gangsters” denuncia una leggera stanchezza narrativa e non convince appieno proprio perché troppo spettacolarizzato ed ingolfato di trame e sottotrame, alcune delle quali piuttosto inutili (per esempio la relazione di Marie con il volgare Kovalski). Il personaggio del killer fintamente convertito Subra è sviluppato in modo un po’ convenzionale e la questione dell’omicidio/suicidio in carcere è risolta forse troppo frettolosamente. La scelta di ricorrere a rapidi flashback sul passato dei protagonisti non è particolarmente originale ed incisiva. Infine anche la denuncia della dilagante corruzione ed ipocrisia all’interno della polizia, i cui massimi esponenti sono pronti ad occultare crimini clamorosi per non danneggiare personalità di spicco in attesa di promozione, in questo caso, suona un po’ pretestuosa e ripetitiva (così come l’acerrima rivalità tra poliziotti impegnati sullo stesso caso), anche se Marchal riesce a risolvere la questione con un dialogo di lucidissima esemplarità, affidato alla voce di un ormai rassegnato Schneider: “La verità di un poliziotto non è sempre la migliore delle verità!”. Marchal resta un signor regista ma qui forse si è fatto un tantino prendere la mano rischiando di portare il tutto a saturazione. Il problema di “MR73” sostanzialmente è questo: visto dopo gli altri due film, fatica a comunicare qualcosa che non sia già stato detto e mostrato con maggior sintesi e incisività in precedenza. Certo un buonissimo film di genere (e visti i tempi che corrono tanto di cappello), non però un capolavoro come “36”. Qui ci si limita ad intrattenere egregiamente (non un male, per carità, anzi), là si veniva rapiti e catapultati con trascinante ed incontenibile forza in un mondo ai margini, ormai senza speranza e senza ideali, in cui, per citare un efficace dialogo di “Gangsters”, la merda puzza e te ne accorgerai quando ci cascherai dentro!”.
Voto: 7
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