Regia di Olivier Marchal vedi scheda film
Simboli. Mr73 è una pistola a tamburo a sei colpi in uso alla polizia francese, un feticcio di un’epoca trapassata e tumulata in mezzo alle cose vecchie, tenuta in ordine come un ricordo doloroso. Le pistole a tamburo non si inceppano mai, questo si sa, non hanno tentennamenti. Olivier Marchal dopo il superbo polar 36, Quai des Orfevres ritorna a raccontare del mondo sommerso della polizia, ambiente che conosce molto bene essendo egli stesso un ex “flic”, incrociandolo con una dolorosissima storia di rimorsi, devastazioni personali, un serial killer in azione e uno che presto tornerà a finire un vecchio compito. Marsiglia, il teatro della tragedia, nome che evoca sensazioni di pulito, di bucato e profumo di buono, in realtà schifoso buco del culo del mondo, marcio e sudicio in cui gli uomini si accalcano come topi, indistinti nelle identità e amorali nelle azioni. Luis Schneider è il poliziotto giunto al “groud zero” della propria esistenza, eroso da un senso di colpa più grande della vita stessa e promesso alla morte dalla codardia del bere. Un personaggio Melvilliano il cui senso della tragedia e della fine inevitabile se non addirittura anelata, corrompe tutto ciò che lo circonda. Un Daniel Auteuil masticato dal destino e risputato nel mondo, una figura in controluce violentata dalle allucinazioni etiliche mischiate al ricordo della perdita della famiglia. Tutto intorno il caos di umanità alla deriva, disillusa, perdente. Marchal non si fa mancare nulla e descrive un inferno sulla terra come solo raramente il cinema ha mostrato, lo stile freddo e geometrico del blasonato 36, in cui le alienanti strutture delle città fornivano lo schema e le coordinate dell’ambiguità (palazzi non riconoscibili dall’architettura, così gli uomini non sono più riconoscibili nei rispettivi ruoli), lascia spazio ad una barocca e furiosa messa in scena di interni claustrofobici, maleodoranti e ammuffiti oppure descrive in brevi campi lunghi le arcane architetture inzuppate di salsedine e angoscia dei sobborghi marsigliesi quando non precipitano sui protagonisti, come se fosse acido, improvvisi e violenti acquazzoni che celano agli occhi il reale per confonderlo in un indistinto magma bruciante. Bruciante, anche l’acqua. Il tutto affogato in una fotografia carbonizzata, sovraesposta, fortemente estetizzante ma al contempo giustificata dalle esigenze della storia. E’ la realtà in cui si dibatte Schneider, la sua realtà bruciata dall’alcol. I suoi tratti neri vomitati sul bianco assomigliano a radiografie di un fegato devastato, una tomografia impazzita, una pellicola di una vita arsa dall’uso. E’ una realtà distorta in cui manca totalmente il senso del trascorrere del tempo, delegato solo a flashback in bianco e nero che rappresentano il ricordo, l’azione è invece congelata in un tempo privato, urgentemente sempre al presente e ad un futuro che arriva invisibile nella scena successiva a comprimere il racconto affinché la fine sia il più possibile figlia dell’inizio, sovrapponibile ad essa senza possibilità di scampo. E’ in questo inferno che i personaggi si muovono, con la camera strettissima di Marchal sui loro volti, quasi a contarne i pori, ogni ruga ed ogni dolore. Vite inceppate, i poliziotti dell’ex poliziotto Marchal sono sporchi e violenti, corrotti e corruttibili a partire dal grado più basso fino a quello più alto, cambiano solo le contropartite, che sono proporzionalmente sempre più elevate. Luis è la figura morale in cerca di redenzione, un anti-eroe tipico della tradizione noir francese, Justine (Olivia Bonamy, bravissima e intensa) è la sua ancora di salvezza, come Luis lo è per lei. Entrambi sono ossessionati dal ricordo dello sterminio delle rispettive famiglie. Entrambi sono disillusi e disgustati dalle macchinazioni del potere e dall’ambiguità della legge. La famiglia è infatti il tema sottotraccia che caratterizza il film e gli dona uno spessore di grande importanza. Le famiglie distrutte rappresentano la disgregazione della cellula base della società, così come la Polizia è – come dice un poliziotto ad un altro- una famiglia che non si deve tradire, quasi mafiosa disgregata nei ruoli e nell’etica, marcia a partire dal suo interno, senza alcun valore che non sia quello del denaro e del piccolo successo personale, senza esempi positivi da prendere per migliorare. Anche Dio è usato come pretesto dal killer per ritrovare una libertà che non gli spetta e che la commissione giudicatrice avendo smarrito etica, morale e senso del giusto, gli concede. Mr73 è, dicevamo, un simbolo di un passato carico di etica, storia e valori. Tramite essa Luis mette le cose a posto in un disperato finale di grande intensità, scevro di parole, un montaggio alternato in cui alla morte si sostituisce una nuova nascita, il dolore viene messo a tacere e le vite inceppate si sbloccano, in un modo o in un altro. Il tempo ricomincia a scorrere. Le mani di Luis per una volta non tremano, e si sa, le pistole a tamburo non sbagliano, non si inceppano mai.
Il merito di Olivier Marchal è quello della coerenza, dell’andare fino in fondo senza tentennamenti. Molto diverso dal precedente -36, Quai des orfevres- questo new polar fa sprofondare nell’eccesso visivo la deriva dell’essere umano, ne cerca gli effetti schiacciando i visi degli attori sugli obiettivi, riduce l’azione ad essenziali scontri e si concentra sulle psicologie, sui rapporti, sui dettagli e sulle sospensioni. Ciò che è esterno è il prodotto di ciò che siamo dentro, marciume. L’analogia stile, personaggio, ambiente è perfettamente pertinente. Gli interni sono spogli e bui, sporchi. Riportano alla mente le ambientazioni dei recenti horror-torture porn (Saw; Hostel) in cui l’annullamento della persona non è solamente dal punto di vista psicologico (l’architettura asettica della periferia parigina del primo film) ma anche e soprattutto fisico, sia che si tratti di un carcere che di una stazione di polizia, gli ambienti sono perfettamente interscambiabili e irriconoscibili se non contestualizzati. Così sono i poliziotti, così i killer, non c’è alcuna differenza. Il personaggio di Auteuil, Luis Schneider, è l’elevazione a potenza del classico anti eroe disilluso dei noir, poiché egli non è fuori posto in un mondo di regole che deve disattendere per avere soddisfazione, egli è piuttosto un alieno in un mondo senza alcuna regola certa, in cui non c’è nulla da disattendere e nulla a cui attenersi se non alle regole fissate di volta in volta dalla convenienza di chi è sopra di lui. Il suo mondo interiore, devastato dall’alcol e dal rimorso al contatto con questo tipo di realtà provoca un cortocircuito quasi chimico, che trova piena corrispondenza e giustificazione nella fotografia bruciata che caratterizza il film. Melvilliano, si diceva, in effetti la connotazione apocalittica che contraddistingue Schneider è la ricerca spasmodica della fine, sorretto però da un’etica ferrea che lo mantiene reattivo, mentre il dolore funge da motore per muoverlo sulla scena. L’alcol è la benzina. La pistola il simbolo, quasi blasfemo, dell’ordine, dell’etica di un tempo passato, della pietà quali sono le uccisioni finali, eseguite senza drammatizzazione, risolute e perfettamente coerenti. E’ un grande film, Mr73, un film di genere come solo i francesi sanno fare, rabbioso, azzeccato nell’espressività delle caratterizzazioni (Chaterine Marchal-Marie Angéli, Philippe Nahon-Supra, Francis Renaud-Kovalski), ridondante e potente ma caricato di una passione che ne giustifica qualsiasi eccesso.
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