Regia di Matteo Garrone vedi scheda film
un film di fantascienza. e non solo perchÉ l’incipit (indirettamente e inconsapevolmente surreale, spaventevole, bellissimo) ci mostra alcuni camorristi sotto docce solari che paiono capsule spaziali provenienti da chissà quali altri mondi (im)possibili, e perché - nell’episodio che racconta le schifose complicità tra imprenditori del Nord e riciclatori di rifiuti tossici del Sud - per “sistemare” le sostanze mortali gli uomini di Franco (Toni Servillo) e Franco stesso sono costretti a indossare tute da astronauti, e perché gli scenari, gli sfondi - fabbriche dismesse, campagne aride e “lunari”, colori che evocano memorie metafisiche - ci catapultano in universi che sembrano uscire dagli sguardi isterici di certi film di Herzog. Fantascienza anche per l’incredibilità delle mutazioni sociali e ambientali di una fetta d’Italia che non è più Eduardo e non è più Sophia Loren. E, soprattutto, non è più Dolce vita. Sarà forse una forzatura giornalistica, ma Gomorra di Matteo Garrone mi ha fatto tornare alla mente il capolavoro di Federico Fellini: per quelle statue di Padre Pio imbrigliate nelle corde e sospese per aria e per il finale - il finale più amaro e privo di speranze che ricordi - su una spiaggia che, nell’Italia del boom economico, veniva rappresentata dal sorriso di Valeria Ciangottini e dal saluto sornione di Marcello Mastroianni, vagabondi all’alba di un edonismo che - seppur venato di preoccupante e individualistica cialtroneria - viveva e pulsava (di) vitalità, facendoci entrare in un’altra epoca, in un decennio che - lo abbiamo poi verificato - avrebbe cambiato almeno un paio di comportamenti sostanziali. Gomorra, dunque, come antitesi alla Dolce vita reinventata dal maestro di Rimini: da Via Veneto, dalle auto scoperte e svolazzanti, dai night club con i primi spogliarelli, dal Celentano che canta e suona il rock’n’roll, dall’affresco esistenziale che ci costringe(va) a riflettere su cosa fosse il mondo e su quale mondo volessimo, all’inferno ospitato dalle Vele di Scampia, all’architettura del Male che imprigiona e contagia di virus che non consentono più di respirare, di vivere, di pensare, di proiettarsi verso il futuro. E così Maria (Maria Nazionale) - nell’episodio che incrocia quello del piccolo Totò (Salvatore Abruzzese) - non può affacciarsi alla finestra e urlare a squarciagola la felicità di una mattina napoletana o raccogliere il paniere con le provviste, perché le sue persiane sono chiuse, i tubi dell’acqua macerati dai buchi, i sacchetti della spesa portati direttamente in casa dal ragazzino, visto che persino andare dal droghiere potrebbe risultare fatale. E così Don Ciro (Gianfelice Imparato), davvero il superamento verso il baratro del Nulla, della disfatta sociale e politica di una terra e di una cultura, non riesce a strappare nemmeno un sorriso, malgrado abbia potenzialmente ogni connotazione possibile del personaggio e dell’umanità eduardiana. Un superamento che si spiega e dispiega anche nella scena al capezzale del grande letto matrimoniale, dove Franco tranquillizza il boss moribondo sulla possibilità di aumentare i camion e triplicare gli affari tossici scaricando la spazzatura del Nord nelle discariche dell’abusivissimo e sfruttatissimo Sud del Mondo. Gomorra, dunque, dal best seller di Roberto Saviano, senza tradirne lo spirito, e rapendone l’anima contante di fiumi di denaro che imbrattano tutto ciò che toccano, in una sorta di contrappasso all’incontrario in cui non v’è traccia nemmeno di una lamina d’oro. Gomorra e la demitizzazione del cinema romantico di Brian De Palma e della sua icona Tony Montana, ridicolizzata in uno squallido capannone da Marco e Ciro (Marco Macor e Ciro Petrone), due ragazzi mai esseri umani, vittime sacrificali della neoesistenza apocalittica del Nuovo Millennio Italiano e, metaforicamente, di tutte le vittime del Mondo delle Merci, dove uomini e donne hanno meno diritti dello scatolame o di una partita di vestiti. E così Pasquale (Salvatore Cantalupo), maestro della sartoria d’alto lusso, che scopre in un bar di un autogrill niente meno che Scarlett Johansson (nel libro è Angelina Jolie) indossare per il Festival di Venezia una delle sue meravigliose creazioni artigianali, lui che per sentirsi riconosciuto finalmente economicamente e professionalmente, aveva accettato di impartire lezioni di taglio e cucito ai cinesi, finendo - per non essere ammazzato - a guidare i tir che trasportano al Nord proprio quegli abiti destinati presumibilmente alle mogli di quegli imprenditori che votano Lega e poi fanno affari con la camorra. E questo il Nuovomondo, bellezza: le canzoni melodiche (straordinario il sound designer di Leslie Shatz) che fanno a pugni con i fertilizzanti, il lavoro nero che si sposa con lo spaccio perpetuo di droghe e del sesso senza sesso, le magliette di Beckham che si macchiano del sangue quotidiano dell’ennesima vendetta. Gomorra, insomma: il film italiano più importante, più maturo, più cinematograficamente innovativo dai tempi della Dolce vita. E Matteo Garrone, che ha visto molto Altman e molto Scorsese, il nostro cinema migliore e peggiore (non si potrà più girare in Italia un film sulla mafia, sulla camorra o sull‘ndragheta senza ripartire da qui) che filtra, frulla e reinventa come solo i grandi sarti sono in grado di fare. Muovendosi dentro ai generi. E proiettando il Neorealismo, il napoletano e il casertano, nello specchio della Los Angeles del 2019. Perché, così viene detto loro ogni mattina da un Dio che non è più (come la Loren, come Eduardo), per gli abitanti di quella fetta d’inferno del Pianeta Terra è tempo di morire.
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