Regia di Christopher Nolan vedi scheda film
La cosa curiosa è che nel titolo non compare il nome del supereroe. Quello che connota la pellicola sin dall’inizio e che ti dice che cosa andrai a vedere e cosa presumibilmente proverai. Il titolo si potrebbe riferire benissimo, in questo caso, all’antagonista. O al protagonista è vero, ma come in questo caso riferito alla fine dell’avventura , un titolo che chiude idealmente il percorso psicologico dell’eroe iniziato nel primo capitolo in cui si ponevano le fondamenta della nuova iconografia batmaniana: la discesa nel buio di Batman, nella mente per il suo schizofrenico alter ego Bruce Wayne. Nolan si sa, è Escher reincarnato con in mano una telecamera. E filma i Maelstrom psichici dei suoi personaggi con la stessa leggerezza con la quale riprenderebbe un barbecue in giardino con i figli dei vicini. Il Cavaliere Oscuro è così un film sontuoso, tortuoso, untuoso, pericoloso. L’ipertecnologico difensore di Gotham che ricalca lo skyline di New York monco di due dita puntate verso l’alto, come se ancora non avesse vinto la battaglia con i propri fantasmi, è più simile ad un supersoldato sofisticato e letale, come uno di quelli impegnati a regimentare la situazione politica in giro per il mondo ed in grado, un giorno, di fare rialzare in piena libertà quelle due dita mancanti alla ferita città regina della madre patria. Divagazioni. Tortuose divagazioni e intrecci di trame che si sovrappongono e si mischiano ad una realtà che i fumetti non riescono a contenere. Mafia, amore e morte. Identità segrete e pubblico ludibrio. Il male che infetta una città spaventata e debole al punto di farsi infettare. E’ l’attualità, quella dei TG, delle Breaking News, immagine profondamente distante dall’immaginario dark e un po’ punk dei Batman di Burton. Perché il male qui non è netto. Non ci sono fazioni schierate. Nel paese delle grandi opportunità, il lecito e l’illecito si mischiano sotto la denominazione comune di “affari & politica”. I personaggi scivolano da una parte all’altra degli ampi confini della legge sfruttando le sempre più ampie vie di fuga, dei limbi senza regole che permettono loro di essere al tempo stesso criminali e non. O di diventarlo. O di finire di essere qualcosa per poi indossare una maschera ed essere qualcos’altro. Altrove e Qui. Shanghai non è tanto diversa da Gotham/New York. E solo più pericoloso. Perché il rischio è di perdere definitivamente le coordinate della propria natura. Il Joker ad esempio è perso. E’ la maschera che non è più maschera è solo la metafisica trasformazione dell’astratto concetto di male in essere dis-umano. Batman si deve trasformare agli occhi della gente in una minaccia, deve voltare la faccia della medaglia in quella scura e bruciata della propria psiche per far si che agli occhi della gente l’eroe diventi l’eroe che tutti hanno sotto gli occhi nonostante la doppia faccia: Harvey Dent (Aaron Eckhart). Procuratore impazzito d’amore e pertanto vendicatore al servizio del destino che con la moneta in mano ricalca in pieno la figura spettrale e comica insieme di Anton Chighur dei Fratelli Coen® di Non è un paese per vecchi. Collimazioni. Per fare intendere che il male nella concezione più pura e sentita di questi tempi bui, viene percepito nel modo più crudele: casuale. Destino. E’ quello che si accanisce con i personaggi, ognuno così imprigionato nella propria sociopatia da rendersi solo e mostro, ognuno convinto di poterlo gestire, il Destino.
. Il Joker è terribile, si mangia letteralmente tutti gli altri personaggi. Nelle sue movenze ha quel non so che di putrefatto portatore infetto di morte che lo rende realmente repellente e fuori luogo inserito nella glaciale architettura post 11 settembre della città. Vetro e cemento contro capelli unti e rossetto sbavato. Sembra Il Fantasma di Inland Empire. Sembra Robert Smith dei Cure sotto acido. Sembra un poster di It che ha preso improvvisamente vita. E’ talmente grottesco da risultare quasi comprensibile il suo schifo per il genere umano poiché egli è come saremmo da morti, se fossimo morti molto molto male ma non del tutto. Come Heath Ledger, il Joker, personaggio ammantato da un’aura postuma di maledizione per la fine dell’attore che nella realtà muore per poi rivivere sullo schermo. Il Destino non si piega. Peccato però che Nolan non affondi il colpo. In tutto questo strenuo rincorrere l’Assoluto Realistico, il film perde pathos proprio nel finale, quando messe le (lunghe ) basi per una approfondita analisi delle caratteristiche dei personaggi, nelle risoluzioni drammatiche balbetta. Così, non si muore e tutto si spiega. E in un film così pesantemente e efficacemente oscuro, pervaso da una costante e reale sensazione di morte, questo è un difetto, poiché il patto di finzione con lo spettatore era sottoscritto con basi che poi vengono disattese, trasportando mestamente il dramma psicologico/sociale nei più tranquilli canoni action del blockbuster hollywoodiano. Fumetti, il loro difetto è che non finiscono mai, i personaggi non muoiono, non invecchiano, non cambiano. Così la morte dell’ispettore Jame Gordon (Gary Oldman) è finta. Gli ostaggi sulla nave non si fanno saltare in aria a vicenda come sarebbe logico. Retorica della speranza che pervade il genere umano. Muore Dent-Due Facce ma risorge come eroe della società civile. Muore solo l’ex fidanzata di Lui- in -Persona Batman e novella promessa del procuratore Senza Macchia e Senza Paura. Muore perché è brutta. Rachel Daves (Maggie Gyllenhaal) è realmente brutta. Non riesco in effetti a capire se la sciatteria della ragazza, il cui fratello ricordiamo flirtò proprio con Heath Ledger sul set di Brokeback Mountain (potenza della fiction) sia stata una scelta per calare ancora di più nella realtà tutto l’impianto scenico rinunciando di fatto alla Bellona-Pupa-dell’Eroe, o se un improvviso sciopero dei personal stylist l’abbia scaraventata sul set così com’era, dopo una notte insonne. La faccetta da bulldog abbandonato in autostrada di questa ragazza è qualcosa di profondamente disturbante, anche più del Joker, che almeno si trucca. Male, ma si trucca. Così è il film se vi pare. Bello lungo e duro. Ma che si ammoscia nel finale. Caotico nelle scene d’azione. Tecnologia a gogo alla quale bisogna inchinarsi e crederci spassionatamente. Pronto, cotto, servito e digerito al punto giusto per farne un altro. Un altro episodio. Un’altra vita e un altro amore, ci sarà. Un altro regista, sicuramente, pronto a farsi le ossa con un brand che non può più fallire. Purtroppo, perché in una vicenda di fallimenti e doppiezze questo ottuso e meccanico perseguire la vittoriosa serialità del marchio è qualcosa che toglie credibilità al tutto. Ma è il business, dolcezza, è un dio terreno stampato su biglietti verdi accumulati a piramide sul fondo di una nave, ed in cima qualcuno che conta. Anche se il Joker non sarebbe del tutto d’accordo…
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